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di DINA D'ISA DOPO aver vinto molti premi nei vari festival internazionali, da Locarno a Valladolid, ...

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S'intitola «Il gesuita perfetto», è tratto dall'omonimo romanzo di Furio Monicelli e le riprese inizieranno la prossima estate con una coproduzione italo-francese. Intanto, proprio ieri Costanzo ha ricevuto un altro premio a Roma, il Liberation Award by Rim, patrocinato dal ministero delle Tecnologie e dell'Innovazione, dedicato a personaggi che si sono distinti per nuovi modi di pensare, agire e comunicare. Costanzo, qual è il tema del suo prossimo film? «Continuo ad occuparmi del concetto di libertà, come ho già fatto in «Private» e nei miei prededenti documentari. Ma se in «Private» la ricerca della libertà è vissuta in uno spazio che si trasforma poi in una prigione, con «Il gesuita perfetto» la libertà acquista un altro valore. Quello della ricerca di un'appartenenza a qualcosa che il protagonista ancora non conosce bene, è un uomo che va in cerca dei suoi punti di riferimento. Anche questa è quindi la storia di una prigionia, quella però di un giovane che si priva della libertà del mondo per trovarne una, forse più vera, nella clausura. Il ragazzo è un personaggio inquieto, destinato ad entrare nella Compagnia di Gesù, perché è lì che troverà un valore nuovo, ovvero la libertà di non dover più scegliere, di non essere più obbligato a decidere tra soluzioni mediocri o false. Se raccontassi la storia di un prete omosessuale navigherei in una banalità assoluta. Ancora una volta, racconto il proseguimento naturale del mio filo narrativo, senza voler dare alcuna ideologia sul mondo che ci circonda, ma solo offrendo le mie impressioni in alcuni particolari contesti. Nel mio lavoro, cerco di analizzare sempre degli elementi fortemente politici che poi rispecchiano la realtà di tutti i giorni». A quale genere di realtà si riferisce? «A quella del lavoro, per esempio, che coinvolge tantissimi giovani, costretti al precariato. Viviamo nell'assoluta non libertà, in una falsa libertà che non rispetta nemmeno uno dei diritti umani più importanti, il diritto al lavoro. Il precariato diventa il senso dell'essere umano di oggi: nel lavoro, come nella società o nei valori, nulla è definitivo. L'idea di poter essere liberi è falsa e la politica giustifica il precariato come stimolo al cambiamento, che in realtà l'individuo non vuole perché preferisce la stabilità. E così i giovani non hanno la possibilità di costruire, su niente. Per costruire è importante fermarsi, non cambiare di continuo senza poter coltivare obiettivi precisi. L'unico cambiamento in cui credo ora è quello del 9 e 10 aprile». Lei ha mai vissuto in un convento? «Sì, era necessario farlo e impossibile non farlo. Non solo perché sto ora realizzando un film su questa esperienza, ma soprattutto per capire cosa si prova, quali emozioni ti assalgono nlla solitudine e per comprendere appieno il significato del silenzio. Ho soggiornato in vari conventi, di diverse religioni, in Italia e all'estero». Il suo film «Private» è stato scelto prima dai giurati italiani per gli Oscar ed è stato poi rifiutato dagli americani: condivide il verdetto finale dell'Academy? «Credo che il regolamento dell'Academy debba essere chiarito, visto che quest'anno sono stati rifiutati ben nove film stranieri, compreso il mio, perché non rappresentavano adeguatamente la propria nazione d'origine. Ma alla fine ho vissuto quel rifiuto come una liberazione: in questo momento della mia vita non mi andava proprio di ritrovarmi coinvolto a Los Angeles tra aperitivi e feste di promozione, seppure organizzate per il mio film. Le pellicole premiate dagli Oscar non mi sono piaciute, nè «Crash», nè «Brokeback Mountain» e nessun altro film americano. L'unico che a mio parere meritava di vincere era «Good night and good luck» di George Clooney, per il tema trattato e per la cura della regia». Qual è il regista italiano che più le piace? «Più volte ho citato Marco Bellocchio come

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