Ecco l'Iran moderno e trasgressivo
Una studiosa di 29 anni mette a nudo i limiti del regime di Teheran
Lei è Lila Azam Zanganeh, iraniana, corpo sottile, occhi grandi e neri, come i capelli raccolti dietro la nuca. È cresciuta a Parigi, formatasi all'Ecole Normale Superieure, volata poi negli Usa alla Colombia University per frequentare un master in Affari internazionali, e ancora, salita come un prodigio sulla cattedra della Harvard University. Ora vive a New York, collabora col New York Times e il giornale francese Le Monde, e sta scrivendo il suo viaggio anima e corpo nel mondo letterario dello scrittore russo Vladimir Nabokov, il suo Nabokov, un altro migrante. Il libro della Zanganeh, pubblicato in Italia in questi giorni dalla Sperling & Kupfer, nel titolo pone la giusta domanda: «Chi ha paura dell'Iran?»: gli iraniani o il resto del mondo che ne sente parlare come di una sciagura immanente? Un po' ne dà l'idea il tira e molla che ha preceduto l'uscita del testo. «All'inizio - rivela l'autrice - l'idea nasce con l'editrice americana Norton. Comincio a scrivere, poi però il "Patriot act 2" (pacchetto di norme anti-terrorismo varato e rinnovato dopo l'11 settembre) mi impedisce di continuare: sono iraniana, quindi cittadina di un Paese dell'asse del male. Il Nobel per la pace nel 2003, Shirin Ebadi, iraniana anche lei e avvocato, solleva il caso legale e lo supera. Così alla fine scrivo per la Beacon Press, di Boston, l'editrice più a sinistra che ci sia negli Usa». Siamo al gennaio 2005. «Dall'Italia - continua - arriva l'offerta Sperling, poco dopo anche dell'Einaudi. Ma ormai avevo scelto. Ed eccomi qua». Parla farsi (idioma dell'Iran), inglese, francese e un fluente italiano: «Merito di mia madre dice - negli anni '60 era addetta agli Affari esteri di Teheran a Roma, città che ama e celebra nelle sue poesie, scritte in italiano». Anche qui il filo è sempre lo stesso: il distacco, l'Iran, l'esilio. Come dice il titolo di alcuni versi della mamma: «Questa nessuna terra». A leggere nel libro le storie di artisti, filosofi, scrittori, attrici, registi - in tutto dieci donne e cinque uomini, rigorosamente iraniani - che l'autrice ha sentito e raccolto nel testo, nell'antica Persia la dittatura c'è ancora, ma è fragile e imprigionata nella paura di finire nel sangue e nel disordine amniotico dai quali ha preso forma nel '79. Mentre invece tra la gente monta l'entusiasmo per la democrazia: carsico, sottopelle, e infarcito (guarda che beffa) di american dream, di un sogno occidentale "infedele" che si fa sempre più forte e indisciplinato, a dispetto dei rigorosi e metafisici mullah. Questo è l'Iran che emerge dal libro. Quel "grande Satana" descritto dagli oratori occidentali appare una sagoma pericolante, profilo di un signore cupo e funesto di un inferno nel quale s'annida il suo opposto, l'antimateria iraniana: la città delle cose proibite, del sesso, delle orge, dell'alcol, della tv satellitare, dei giovani di oggi, figli quasi trentenni della rivoluzione islamica di ieri. Ecco come descrive una festa nella Teheran dei giorni nostri lo scrittore e romanziere Salar Abdoh: «In questo Paese - premette - mostrare di divertirsi in pubblico è passibile di punizione». Poi passa all'appuntamento. «È l'una del pomeriggio. Sono con una comitiva di ragazzi allegri. All'interno di una casa percorriamo stretti corridoi e spingiamo pareti semovibili. Continuiamo a scendere, attraversiamo una cantina umida e oltrepassiamo quella che sembra una toilette di servizio ma che altro non è che un grosso buco per terra. Quando chiedo alla stessa persona perché stiamo scendendo così tanto sotto il livello della strada, si mette a ridere e dice che a Teheran sono gli umani a vivere sottoterra. Qualche raffinato imprenditore ha ricreato in casa sua una copia di un bar in stile occidentale. Lo spazio non è moltissimo, ma è tutto sorprendentemente curato. Dietro il bancone sono ordinatamente sistemate bottiglie di vodka, rum, gin e whisky. La barista è g