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Curiosa del mondo attraverso il cinema

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Stiamo parlando di Suso Cecchi D'Amico, la «signora» del cinema italiano che ha scritto per Zavattini e De Sica, Zampa e Visconti, Monicelli a Zeffirelli. Sue le sceneggiature di film memorabili: da «Ladri di biciclette» al «Gattopardo», da «I soliti ignoti» a «Rocco e i suoi fratelli», dal «Pinocchio» tv di Comencini a «Metello» di Bolognini. E poi «Vacanze romane» di Wyler e «Oci Ciornie» di Michalkov. La sua casa romana è stata, per anni, un cenacolo culturale. Ci sono passati Pirandello e Croce, Brancati, Moravia ed Ercole Patti. Perché Suso era la moglie del critico musicale Fedele D'Amico, a sua volta figlio di Silvio, e soprattutto figlia di Emilio Cecchi, tra i fondatori della «Ronda», tra le più importanti riviste letterarie del Novecento. Signora Suso Cecchi D'amico, lei è la figlia di Emilio Cecchi, uno dei critici e letterati di punta dell'altro secolo. Questo ha influito sulla sua carriera di sceneggiatrice? «Direi molto. Mio padre si era trasferito negli Stati Uniti perché insegnava alla Berkeley University, e da lì raggiunse Hollywood, incuriosito dal cinema americano che cominciava allora ad essere presente nelle nostre sale. Quando tornò in Italia gli offrirono la direzione di una casa di produzione per un anno, realizzò due film che sono divenuti importanti: "Gli uomini che mascalzoni!" di Camerini e "1860" di Alessandro Blasetti. Per me l'avventura del cinema fu enorme, poter assistere alle riprese, stare sui set...cominciai a leggere le sceneggiature che mandavano a mio padre, e piano piano dalla lettura passai alla scrittura». Che qualità deve avere uno sceneggiatore? «Grande curiosità, e di conseguenza capacità di osservazione. La letteratura è una grande miniera, bisogna amarla per leggerla e leggerla per rubarla. Il cinema deve molto alla letteratura, soprattutto per ciò che concerne i personaggi. Lo sceneggiatore deve osservare i caratteri, indicare a volte i posti...Come quella volta a Ciminna, in Sicilia, per «Il Gattopardo» dove maturò uno dei più originali aneddoti della cinematografia italiana: fu scelta la location dell'interno di una chiesa, e nessuno si accorse che la facciata esterna era stata fatta ricostruire da Luchino in polistirolo. Dopo l'uscita del film furono in molti a cercare la bella facciata inesistente, compreso un giovane Martin Scorsese. In quegli anni, soprattutto per i set siciliani, cercavo di conoscere gli umori degli isolani, e mi capitò di frequentare il Palazzo di Giustizia di Palermo. Mi colpì il fatto che gli imputati venissero condotti in catene davanti al giudice...storie da tragedia russa. Ecco, i siciliani sono molto simili ai russi, la stessa espansività, la stessa cupezza». Lei è la più grande sceneggiatrice italiana. Ripercorriamo le tappe fondamentali della sua carriera. «Iniziai come autrice di soggetti. "Vivere in pace" era il racconto di una mia esperienza personale, di quando ero sfollata assieme con la mia famiglia. Poi passai alla sceneggiatura con Luigi Zampa, regista modesto ma molto appassionato di cinema, di lui ricordo "Processo alla città" che è un film di valore. Ma l'esperienza più coinvolgente l'ho avuta con Luchino Visconti, lavorare con lui era un'avventura di grande prestigio. Che metodo adottava Visconti? «Luchino era un perfezionista in tutto, non si sentiva a suo agio se non era in condizione di assolvere a tutti i compiti richiesti per la realizzazione di un film». Secondo lei quale è stata la fase più creativa del nostro cinema? «Ovviamento il neorealismo, ma anche la fase successiva, mi riferisco, per esempio, a un film come "Rocco e i suoi fratelli". A quel punto si poneva il problema di non raccontare più la cronaca dei fatti in maniera realistica, ma di imbastire una sorta di romanzo, l'affresco di una famiglia con tutte le implicazioni psicologiche. Ma anche molta della cosiddetta "commedia all'italiana" ha un grande valore, penso ai personaggi messi in scena da Sordi o da Gassman». E De Sica? «Era un puro creativ

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