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Nel '66 gli americani pensavano ad un veloce successo militare Grossolane valutazioni portarono all'esito disastroso del conflitto

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Nel Vietnam del Sud, Cambogia e Laos, all'inizio degli anni Sessanta, l'Italia era rappresentata dall'ambasciatore Giovanni D'Orlandi «servitore dello Stato nel senso più rigoroso di questa espressione», come scrive Giulio Andreotti nell'introduzione ai ricordi del diplomatico - deceduto nel 1973 - e dunque pubblicati postumi(«Diario vietnamita 1962-1968», Trenta Giorni Società Cooperativa, 974 pagine, 30 euro). Una notazione di carattere letterario è d'obbligo, perché D'Orlandi si colloca a buon diritto nel solco dei diplomatici-scrittori: lo stile è piacevole, la narrazione scorrevole, le riflessioni tutte di grande interesse. Il 17 luglio 1962, quando D'Orlandi atterrò a Saigon, i «consiglieri» militari americani erano 12 mila: sarebbero diventati 580 mila. Questa «escalation», questa vorticosa spirale, con il suo allucinante corollario di vittime, poteva essere arrestata in tempo. «Operazione Marigold», così venne denominata la trattativa segreta che ebbe tre protagonisti: l'ambasciatore polacco Janusz Lewandowsky, delegato presso la Commissione di armistizio di Ginevra; l'ambasciatore americano a Saigon, Henry Cabot Lodge, e Giovanni D'Orlandi. A partire dal giugno del 1966, con Lewandowsky che faceva da tramite con Hanoi e che aveva come referente lo stesso primo ministro Pham Van Dong, il Nord Vietnam si dimostrò disponibile a un compromesso incardinato su punti ben precisi. Innanzitutto, il Vietnam del Nord non esigeva la riunificazione del Paese, né intendeva imporre un sistema socialista al Vietnam del Sud; inoltre Hanoi non chiedeva l'immediato ritiro delle forze americane, da scadenzare in base un calendario concordato. Beninteso, il Vietnam del Nord non avrebbe accettato soluzioni che potessero apparire come una capitolazione, chiedeva la fine dei bombardamenti aerei al di sopra del 17° parallelo e poneva come «conditio sine qua non» l'assoluta segretezza della trattativa. Si trattava di una piattaforma negoziale accettabile e il Presidente Lyndon Johnson fu informato di questa «apertura». La reazione del Pentagono - «consule» McNamara - dei responsabili della Sicurezza Nazionale e del Segretario di Stato, Dean Rusk, fu improntata a freddezza, scetticismo, propensione a considerare l'«avance» di Hanoi come una mossa propagandistica. Vi fu anche iattanza e ostentata certezza di risolvere la partita sul campo, con una vittoria militare. Il «canale tripartito» Lewandosky-Cabot Lodge-D'Orlandi venne ostruito da rinnovati, micidiali bombardamenti aerei su Hanoi e Haiphong. Nel marzo del 1967 (Operazione Kelly), il diplomatico polacco tornò alla carica, in base a un fatto nuovo: Hanoi, per propiziare un sondaggio, rinunciava perfino alla pregiudiziale della sospensione dei bombardamenti aerei. Ma tutto fu vano e le operazioni militari rincrudirono, da una parte e dall'altra. «Il nostro tentativo è morto ed è morto trucidato» - annotò sul suo Diario D'Orlandi - «Dio perdoni coloro che si sono presi questa schiacciante responsabilità». I guerriglieri Vietcong e i «regolari» nordvietnamiti, riforniti alternativamente da Cina comunista e Unione Sovietica, erano tutt'altro che battuti. Con l'offensiva del Tet (1968), sbalordirono il mondo per efficienza, determinazione e capacità di portare l'offesa fin dentro Saigon, nonostante l'imponente apparato militare americano. «Lo scontro, divenuto presto internazionale, dimostrò però - come scrive ancora Andreotti - che il fattore uomo pesa più di ogni disparità di mezzi». I 2.376 giorni dell'impegno degli Stati Uniti non propiziarono la vittoria, ma determinarono la prima sconfitta militare della repubblica stellata. Il finale fu perfino umiliante, con l'ambasciatore Graham Martin in fuga su un elicottero, la bandiera nazionale ripiegata sotto

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