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di ANTONIO ANGELI «HAI una pistola in tasca o sei contento di vedermi?» E chi se la scorda questa battuta, la conoscono tutti.

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Le persone che rispondono indicando il film «Chi ha incastrato Roger Rabbit», del 1988, sono attente, di buona memoria, ma si sbagliano. Quella è solo una citazione. La battuta originale è di Mae West (la prima vera grande diva scandalosa dello star system) e la pronunciò nel 1933. Allora la platinatissima Mae aveva quarant'anni, sfornava lei personalmente battute che gettavano nel panico l'America puritana ed entusiasmavano i suoi fan. Eccone un'altra: «Meglio farsi vedere tutte e bene, che essere una che nessuno vuole vedere». La famosa battuta della tasca è stata poi ripresa, parafrasata, rilanciata più volte. «Di' un po' Eddie, hai un coniglio in tasca o sei contento di vedermi?». Domanda Dolores all'amico (Bob Hoskins) in «Chi ha incastrato Roger Rabbit». Insomma la battuta, bruciante, divertente, fresca e perfetta settant'anni dopo essere stata pronunciata è sopravvissuta alla memoria della sua autrice che oggi ci appare meno bella di quanto fosse considerata allora. Addirittura forse patetica, con mezzo chilo di cerone chiarissimo in faccia e quelle sopracciglia disegnate con la matita. Ma la battuta resiste. E non è l'unico caso, come, ad esempio: «E chi non beve con me... peste lo colga», declamata con bel tono baritonale da Amedeo Nazzari in «La cena delle beffe» di Blasetti, del '41. Il grande Nazzari non sono molti che lo ricordano (certamente più che Mae West), ma tra questi ci sono parecchi cinefili. Le persone passano, ma le battute restano. Anzi conoscere le battute dei film è diventata tra giovani e non giovani, una sorta di religione: un nuovo mito nato nel Novecento e giunto nel Terzo Millennio. Allora ben vengano quegli studiosi sui generis che, con impegno e scienza vera, dedicano una fetta, non piccola, della loro vita a cercare, scegliere, catalogare le battute che hanno reso celebri i film, sopravvivendo, spesso, più di questi. È il caso di Daniele Soffiati che, con una azienda a conduzione familiare (secondo la migliore tradizione italiana), ha scritto il libro «Lupu ululà e castello ululì 2 - Le migliori battute del cinema» (Comix-Mondadori, 261 pagine, 10 euro), secondo volume, o sarebbe meglio dire sequel, visto l'argomento, di una delle più complete raccolte dei brucianti dialoghi di film passati per i cinema italiani tra il '27 e il 2005. Nell'introduzione (piena di doverosi ringraziamenti agli «assistenti»: madre, fratello e sorella) Soffiati specifica di aver fatto appena due eccezioni: per un film tv e per «Tuttobenigni», film-monologo andato direttamente in home-video. Per il resto è cinema allo stato puro, tutto ridotto alla vera essenza: la battuta. E la battuta è anche (si capisce divorando il lunghissimo elenco che costituisce il libro) strumento purissimo di democrazia. In questa raccolta, come nelle battute, appunto, non c'è differenza tra film più ricchi e film fatti con quattro soldi. Dialoghi incandescenti, che si ricordano, non costano denaro e non si creano con le raccomandazioni. Serve una sola cosa: inventiva. Roba che non si vende mica a peso. E allora in questa grande cascata di battute memorabili ecco avvicinarsi e convivere attori e film che sono annoverati con lettere d'oro negli annuari del cinema e filmacci di serie b, ma che qualche risata ci hanno strappato. Ecco film italiani e americani, principalmente, che si inseguono con un unico scopo: regalare qualche secondo di svago, alle volte intelligente, alle volte disimpegnato a chi li guarda. Tutto il libro è un susseguirsi di battute memorabili. A parte, in un capitoletto separato, le migliori freddure di un film-cava: «Frankenstein junior» (titolo originale «Young Frankenstein»), di Mel Brooks, girato nel '74. Il titolo del libro è tratto da uno dei dialoghi più demenziali: «Lupu ululà e castello ululì» non c'è niente da spiegare, non c'è niente da capire, non vuol dire niente. Però da trent'anni fa ridere. Come la domanda del creatore di Frankenstein (Gene Wilder) al servo (Marty Feldman): «Di chi era il cervello che mi hai portato?». Risposta: «Di un

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