Una lingua per la globalizzazione
000lingue nel mondo. 5.999 sono di troppo». Categorico, ma non solo. Anche maleducato, e approssimativo: perché non si curò di spiegare quale fosse l'unica lingua da salvare. L'inglese, ovviamente: ma quale? Quello forbito dei londinesi dell'upper class (molto diverso da quello dei tassisti della stessa città), o l'americano? E quale americano: quello della costa orientale, o quello di Seattle? Dando retta a un attendibile censimento linguistico, sono più di quaranta i Paesi che riconoscono l'inglese come loro lingua ufficiale, o comunque privilegiata, per un totale di 508 milioni di persone, pari al 12 per cento della popolazione mondiale. Ma in ciascuno dei Paesi la lingua è molto diversa, al punto che un canadese ha difficoltà a comprendersi con un abitante dello Zimbabwe, un caraibico con un australiano. Fatti loro, verrebbe la voglia di commentare. Se non fosse che l'inglese (o, per meglio dire, l'anglericano, cioè quel che deriva tra la fusione meticcia della lingua di Shakespeare con quella degli attori di Hollywood o degli yuppies di Wall Street) è la principale lingua veicolare dei giorni nostri, come lo era il greco qualcosa più di duemila anni fa, o il latino ai tempi trionfanti dell'Impero Romano. Uno strumento di comunicazione indispensabile per gli uomini d'affari, per lo show-biz, per decifrare le istruzioni degli elettrodomestici, o per navigare in rete con apprezzabile disinvoltura. Proprio i computer stanno proponento un'ulteriore variante dell'inglese, il netglish, che usufruisce di termini e sintassi che farebbero inorridire un pastore anglicano colto e tradizionalista. Il problema, dunque, ci riguarda tutti: ed è un problema di "comunicazione". Alla fine dell'Ottocento Louis-Lazare Zamenhof provò a risolvere una volta per tutte il dramma biblico (l'aggettivo è pertinente) che ci portiamo dietro dalla notte dei tempi, da quando (capitolo 11 della Genesi) il Signore, per punire la presunzione degli uomini, confuse le lingue, in modo che nessuno capisse più quella degli altri. Zamenhof creò l'esperanto, che ha ancora i suoi accoliti (esiste una Federazione esperantista italiana ch, al passo con i tempi, ha un sito web: www.esperanto.it), ma non ha certo sfondato come il suo creatore sperava. A sfondare è stato l'inglese, per ragioni politiche e culturali facilmente intuibili. Ma - nonostante il suo ruolo egemonico - non è un veicolo ottimale di comunicazione. Proprio perché è una lingua con una storia consolidata, ricca di 615 mila lemmi (illustrati dall'Oxford English Dictionary), dei quali Shakespeare ne usò appena il 3 o il 4 per cento; perché si è imbastardita proprio in ragione della sua diffusione; perché la pronuncia dei vocaboli potrebbe a buon titolo essere definita opinabile (vista la variabilità degli accenti da regione a regione); perché, infine, è una lingua pragmatica, in continua e costante evoluzione. Il risultato (piuttosto scoraggiante) è che molto spesso nelle conferenze internazionali, o nei gruppi di lavoro delle multinazionali, si credano equivoci che rischiano di compromettere, appunto, la comunicazione. Un manager francese (con una vasta esperienza internazionale), Jean-Paul Nerrière, protagonista e testimone di molti qui-pro-quo ha cercato una soluzione "avanzata" per questi problemi, proponendo un nuovo esperanto, che si è preoccupato persino di brevettare: il globish, cioè l'inglese globale (intelligibile in ogni angolo del globo). E ha pubblicato i risultati dei suoi studi in un volumetto («Parlate globish», Agra editore, 19 euro), con vocabolario annesso. «Il globish - chiarisce Nerrière - non è una lingua: è soltanto un suo provvidenziale sostituto. Non permette l'accesso ad alcun tipo di erudizione, non apre la porta al piacere di una letteratura avvincente, e non consente che conversazioni pragmatiche». L'unica ambizione (e scusate se è poco) è la "comunicazione planetaria". L'uovo di Colombo: 1.500 vocaboli, neanche uno di più, indispensab