Ha trionfato una storia intensa e coinvolgente
Realizzato da un esordiente, Paul Haggis, che però, come sceneggiatore, si era già visto candidare all'Oscar per «Million Dollar Baby», era riuscito a proporre 36 ore di vita a Los Angeles mettendo l'accento su quel razzismo quotidiano non ancora esorcizzato in molte città americane. Senza effetti speciali, con un realismo duro che sapeva sapientemente collegare le pagine corali a quelle stretta attorno a personaggi singoli. Da qui, altrettanto giusto, l'Oscar per la sceneggiatura. Mentre i ritmi, affannosi, impetuosi, angoscianti (premiati anche quelli con un Oscar per il montaggio) martellavano un racconto non certo a lieto fine travolgendo e coinvolgendo senza un attimo di sosta. Quanto a «Brokeback Mountain», il film favorito da tutte le previsioni della vigilia, è stato invece altrettanto giusto premiarlo solo per la regia del taiwanese Ang Lee, ai cui tratti delicati e alla cui finezza di tocco si è dovuto se si è potuta accettare senza troppe riserve quella storia di cowboys omosessuali che, tolta da un racconto della scrittrice Annie Proulx, ha trovato nella sceneggiatura non originale, premiata anche quella, una solida base di motivazioni interiori, spesso anche sommesse, proprio per i modi in cui poi la regia le ha risolte. Ineccepibili anche gli Oscar per gli interpreti, soprattutto quello per Philip Seymour Hoffman che, in «Truman Capote: a sangue freddo», è riuscito a far rivivere un personaggio come Capote che, per chi, come me, l'ha conosciuto, era di un'aderenza totale ai suoi gesti, alla sua voce e alla sua mimica: senza attenuarne un solo momento la sgradevolezze e i fastidi. Non ho invece conosciuto June Carter che, in «Quando l'amore brucia l'anima» interpretata da Reese Witherspoon, si ripropone a fianco di Joaquim Phoenix intento a resuscitare per lo schermo John Cash, mito del country-rock. La rilettura però, del suo modo di muoversi, di interagire con il protagonista ed anche di cantare dal vivo ha, ad ogni pagina, sapori autentici: con una vitalità e una vivacità straordinarie. Fra i non protagonisti, dal canto suo, non è stato male accogliere, per «Syriana», proprio George Clooney che, candidato anche per la sua avvincente regia in «Good Night, and Good Luck», ha vinto almeno un Oscar come attore, pur meritando di più. Non meritava altro, invece, come non protagonista, Rachel Weisz che era la moglie un po' sfocata di Ralph Fiennes in «The Constant Gardener» diretto dal brasiliano Fernando Mereilles sulla base di un thriller poliziesco e politico di John Le Carrè. Mi dispiace molto, invece, la dimenticanza, tra gli Oscar di quest'anno, di tre italiani degni di seria considerazione. Non solo Cristina Comencini con il suo bellissimo «La bestia nel cuore», ma Gabriella Pescucci, candidata per i costumi della «Fabbrica di cioccolato» e Dario Marianelli, in gara per la colonna sonora di «Orgoglio e pregiudizio». Tra i film stranieri candidati, quello di Cristiana Comencini, per solidità narrativa e vigore di rappresentazione, era senza dubbio il più qualificato a vincere. Per obiettività di critico, tuttavia, non me la sento di sminuire i meriti di «Tsotsi» che, pur realizzato da un regista da noi poco conosciuto, Gavin Hood, doveva al testo del grande drammaturgo sudafricano Athol Fugard cui si rifaceva, delle dimensioni drammatiche non certo indifferenti. Con una asprezza, nella rievocazione di quelle disastrate periferie di Johannesburg non ancora cancellate dalla fine dell'apartheid, che non riusciva a scalfire nemmeno una mezza conclusione positiva risolta comunque in catarsi. Gli preferivo il film di Cristiana Comencini, ma capisco le ragioni, anche ideologiche, che lo hanno fatto vincere.