Ci vuole un fisico bestiale per fare l'opinionista

Praticamente inarrestabili. Sono le troupe delle radio e televisioni private, arrivano un giorno prima dell'inizio del festival e il loro compito è intervistare chiunque: cantanti, manager, discografici, impresari, confidenti, addetti ai lavori o presunti tali. Spesso ignorano anche il nome di chi hanno davanti, l'importante è creare atmosfera, piantare una luce in faccia e un microfono sotto il naso, creare un capannello di folla. Non è la peggiore fra le depravazioni di questa settimana sopra le righe, ma certo rappresenta un colore a parte di questa folle, folle, folle rassegna. Troupe di giovani e giovanissimi, quasi sempre a carico personale (quindi di fatto ci rimettono un mucchio di soldi) a caccia di star ma talvolta di semplici contatti, chissà, magari utili per il futuro. Certo, anche la Rai non scherza e il vostro cronista, sanremologo convinto e per niente pentito, risulta da anni, immeritatamente, fra gli opinionisti più gettonati. Dalle prime luci dell'alba fino a notte fonda, i tre canali Rai - ma anche i satellitari e le radiofonia - ospitano un gran numero di pareri, dal cantante escluso alla vecchia gloria, dal semiologo con magone al mass-mediologo col maglione, passando per starlette, critici con l'aneddoto incorporato e discografici vari. Il risultato è variabile, ma quasi sempre folcloristico, con grande illuminazione per il giornalista musicale, per sua natura un factotum ipertrofico, con i suoi acri di carta, sempre pronto ad alimentare la mole del materiale da imballaggio culturale. Da «Uno mattina» alla «Vita in diretta», dall'«Italia sul Due» a «Cominciamo da Tre», al vostro cronista è capitato di tutto, anche di passare direttamente dagli ultimi fuochi del «Dopo Festival» all'aurora di «In famiglia», magari con una sosta da «Vittorio», il ristorante di piazza Brescia che riceve, quasi a menù fisso, gli storditi del ritornello. Certo, ci vuole un fisico bestiale, come diceva un cantante che a Sanremo non ha avuto troppa fortuna e non tutti sembrano averlo. Non i cantanti, con le loro teste plasmate con il sangue congelato e con un pensiero troppo debole e prematuro per analizzarne il significato. Meglio i giornalisti e i televisivi, in possesso della spezia di «Dune». Il nesso di tutto ciò? A parte la vanità (o il denaro), dunque argomenti molto bassi, affiora anche il progetto di rischiare un approfondimento musicale, innescare la tentazione che forse in tv è possibile parlare di musica. Ma è faticoso. In una società dello spettacolo televisivo indebolita dalla caducità discografica e dalla decadenza dei contenuti, sorprende che la produzione di materiale da imballaggio possa essere divertente. Di fatto molto spesso non lo è. Ma noi che ancora ce lo possiamo permettere, se la pompa regge insomma, abbiamo il dovere di provarci, di urlare tutto ciò che non ci sta bene, anche all'interno di pollai vergognosi e con possibilità di farci ascoltare sempre più sbiadite. Abbiamo il dovere di provarci, di far valere ragioni di appassionati più che di competenti, le stesse che magari hanno fatto si che la passione diventasse professione, che il lavoro non si tramutasse in conformismo. Una settimana da guerrieri, segnata da pazienza per i cacciatori di foto e autografi (la può avere solo chi lo è stato) e di rabbia assoluta per i "non so", "quelli che Sanremo" e la folta schiera di orecchianti che affollano le vie della città, licenziatari di un microfono e una telecamera che forse non meritano. C'è una sola certezza: l'anno prossimo saranno ancora più numerosi. E non è detto che sia una cattiva notizia.