Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Catarsi di un piccolo bandito nella Soweto del dopo apartheid

default_image

  • a
  • a
  • a

CINEMA dal Sud Africa. Con la mediazione di un romanzo, ambientato negli anni Ottanta, del noto drammaturgo Athol Fugard. Lo ha riscritto e poi realizzato, spostandone l'azione a oggi, il regista Gavin Hood, incontrato con i suoi film a qualche festival anche se questo di oggi è il primo a uscire nelle nostre sale. Il titolo, in lingua «tsotsi-taal», un dialetto dell'afrikaans, sta per «bandito di strada» ed è anche il nomignolo con cui è chiamato il protagonista, un diciannovenne scapestrato a capo di una banda che riempe delle sue malefatte le periferie di Johannesburg e di Soweto, anche oggi, nonostante la fine dell'apartheid, popolate quasi esclusivamente da neri. Tsotsi, una sera, ruba un'auto, ferendone gravemente la proprietaria, ma si accorge solo dopo che a bordo c'era un bambino. All'inizio pensa di disfarsene, poi, invaso dai ricordi della sua infanzia priva di tenerezze, lo nasconde nel misero tugurio in cui abita e quando si tratta di nutrirlo, pretende, pistola alla mano, che una giovane mamma lì nel quartiere lo allatti. Una situazione che lo cambia totalmente, non solo allontanandolo dalla vita di strada ma inducendolo, alla fine, a riportare il bambino ai genitori. Lasciando che la polizia lo arresti... Un percorso psicologico forse un po' affrettato, dal tutto nero al tutto bianco, con una transazione, tuttavia, che non fatica troppo a convincere. Specie perché la cornice in cui si colloca, le disastrate periferie di quelle città sudafricane, è evocata, non solo nei modi ma anche nelle immagini, con un realismo duro sorretto da colori quasi senza luce, molto adatti a visualizzare le dimensioni drammatiche di quel protagonista che prima aggredisce, rapina e uccide con freddezza, poi, quasi insensibilmente si fa conquistare da quel bambino per nominare il quale, lui indicato sempre con il nomignolo, dà il suo nome vero, David: quello con cui lo chiamava, la sua mamma. E questo, anche nel finale dove, data l'asprezza della rappresentazione, si evitano i rischi facili del patetismo. Esorcizzati anche da una recitazione come dal vero che consente a tutti, ragazzi e adulti, di esprimersi in quel dialetto scuro che è la nostra dominante del film. Come la musica «kwaito», nata fra la gente dopo l'apartheid, che effonde dal principio alla fine sulla colonna sonora le sue voci nere. Il protagonista, Presley Chweneyagae, è un quasi esordiente che deve solo essere se stesso. Riuscendoci. G. L. R.

Dai blog