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Condannati a vivere nel braccio della morte

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Chi di viaggi, come Marco Polo, chi della galera medesima, come Silvio Pellico. Richard Michael Rossi appartiene a questo secondo filone, con una lieve differenza. La sua non è solo una galera: è l'anticamera dell'aldilà, il braccio della morte. Nel libro «La mia vita nel braccio della morte», dato alle stampe per i tipi di Tea e tradotto da Roberta Stabilini, l'italoamericano, condannato per aver ammazzato un tizio al quale tentava di vendere una macchina per scrivere rubata e che non voleva pagare il prezzo pattuito, illustra con ampia dovizia di particolari lo «status» dei prigionieri destinati al patibolo nelle carceri americane. Ne esce un quadro reso abbastanza familiare negli ultimi tempi dai reportage dai carceri iracheni e cubani, di violenza, di sopraffazione e di umiliazione dei prigionieri. La differenza è che il carcere di Michael Rossi non è a Guantanamo, ma in Arizona. Un carcere di massima sicurezza, con severissime misure restrittive e dal quale, in 99 casi su cento, si esce solo in una cassa di zinco. È un documentato atto d'accusa, quello di Rossi, che tuttavia non riesce a suscitare nel lettore medio quel senso di compassione prima e poi di sdegno che, nelle intenzioni dell'autore, dovrebbero dar ulteriore lena al movimento anti pena capitale. E tuttavia, sia per la povertà dello stile, incapace di colpire l'immaginazione, sia per la ricerca quasi burocraticamente ossessiva dei documenti relativi a norme e leggi carcerarie, sia per qualche contraddizione che affiora qua e là nel teso (in un passaggio Rossi, che afferma l'impossibilità assoluta per i detenuti di comunicare fra loro cita, inopinatamente, frasi di un compagno di reclusione senza spiegare in quale momento tale contatto sia stato possibile) il testo non raggiunge praticamente mai il suo scopo. C'è anche da dire che il moderno stile di traduzione dall'inglese, troppo fedele alla lettera, non aiuta a suscitare emozioni in chi legge. Sta di fatto che mentre Rossi elenca tutta una serie di situazioni di per sé oggettivamente raccapriccianti, uno si chiede come mai ci siano casi di detenuti che stanno vent'anni in un braccio della morte e rivaluta la presunta lentezza dei processi italiani. Lo stesso Rossi, che si definisce «povero», mentre afferma che i poveri vengono trattati come bestie, senza assicurare loro una assistenza legare adeguata, non spiega come abbia fatto e con quale assistenza a rimandare per vent'anni l'esecuzione. Tutto ciò, tuttavia, non può far dimenticare come le condizioni delle carceri di massima sicurezza americane siano in effetti durissime da sopportare. Celle microscopiche e inadeguate, perquisizioni continue, impossibilità «quasi» totale per i detenuti non solo di poter riunirsi a gruppi, ma anche di comunicare in qualsiasi maniera fra di loro sono tutte condizioni (unite ai lavori forzati sperimentati saltuariamente e con conseguenze talora tragiche) che riducono la persona in una perpetua sottomissione, alla quale o ci si adegua o se ne vedono peggiorare i termini. Da questo punto di vista Richard Michael Rossi, con la sua documentazione accurata e comprensibilmente maniacale di tutto ciò che accade nei tre metri della sua cella e nel poco spazio accessibile intorno, compone senza dubbio un atto di accusa pesante (che fra l'altro ci si chiede come sia potuto uscire dal carcere, se è vero che tutta la corrispondenza viene accuratamente censurata) nei confronti dell'amministrazione carceraria americana, la cui prima preoccupazione sembra essere - e non è escluso che sia - risparmiare sui costi di mantenimento di detenuti che, alla fin fine, sono destinati alla iniezione di cianuro e non è detto che debbano arrivarci in buona salute. Questa visione cinica della vita dei condannati, illustrata da Rossi più con lucidità analitica che con partecipazione passionale, è documentata da tutta una serie di sentenze e di provvedimenti presi dai vertici che vanno in una sola direzione: «Ridurre al minimo il fastidio e i

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