«La proprietà divide, io non ho nulla»
La storia, un thriller sospeso tra echi verghiani, pirandelliani e dostoevskijani, narra il ritorno di Luigi (Bentivoglio), professore di filosofia all'Università di Milano, fino in Puglia, sua terra d'origine. Qui riemergono antichi rancori con i suoi tre fratelli, con i quali cerca di vendere una masserizia di famiglia. Ma dopo il misterioso delitto di Tonino (Rubini), sordido usuraio e boss emergente del Paese, i fratelli si sospettano a vicenda dell'omicidio. Rubini, quanto c'è di autobiogafico in questa storia? «Sono nato a Grumo, vicino Bari, ma me ne sono andato a 18 anni e da allora la Puglia è per me un luogo della memoria. Ho narrato la storia di un ragazzo che se ne va dal sud Italia e diventa un uomo a Milano, con gente diversa da quella che ha lasciato. Torna poi a Mesagna, nel brindisino, per vendere un pezzo di terra che rappresenta l'unico legame con le origini. Vuole così recidere l'ultimo filo che lo tiene attaccato ai suoi. I personaggi non sono cupi come quelli di certi salotti della borghesia, ma sono vitali, nessuno di loro soffre di depressione: la cosa che mi fa più paura. Il film si articola su un doppo binario: è un giallo, con un delitto e un mistero da svelare; però, è anche la storia di un uomo che fa i conti con il passato, è un thriller psicologico». Perchè tanto tempo per realizzare il film? «È un soggetto nato 12 anni fa, pensando proprio a Bentivoglio. Già all'epoca ne parlai con Procacci, un pugliese come me, al quale la storia piacque molto. Poi abbiamo mandato avanti altri progetti. È stato meglio così. Negli Anni Ottanta e Novanta non si sarebbero potuti raccontare gli effetti devastanti della proprietà. All'epoca, i fratelli magari si sarebbero riuniti per creare un agriturismo. Oggi no. Ora siamo saturi delle cose, ne abbiamo fin troppe. Adesso è importante raccontare come una famiglia deve ritrovare la propria armonia senza ostacoli, come la masserizia, o altre proprietà che dividono e diventano marchi dolorosi. Io e mio padre non possediamo nulla, affittiamo tutto e va bene così». Quanta importanza ha, per un single come lei, la famiglia? «Adesso che i miei chiedono a me di risolvere delle cose, mi sento da un lato intenerito e dall'altro terrorizzato. A volte, vorrei scappare via, scomparire, ma non si può. E non per motivi etici, ma perché non ci si può affrancare dall'appartenere a qualcosa di ematico, alla propria memoria e alla propria terra d'origine». Perché ha narrato di un delitto senza castigo? «Luigi, alias Bentivoglio, è un uomo che crede più nella giustizia degli uomini che in quella dello Stato. Nel film sono stato sempre attento a trovare una delicata misura tra commedia e tragedia, quella greca, del sud del mondo. Oggi si raccontano più delitti senza castighi, forse, perché è aumentata la distanza tra cittadini e Stato, ma anche tra uomo e Dio».