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Filosofia, cane da guardia della scienza

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Da questa sera all'Eliseo di Roma torna la rassegna culturale sul rapporto tra i due saperi

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E la filosofia? Non ti sembra, caro Galimberti, che quest'ultima, oggi, cerchi nuove alleanze e vecchie complicità con altri saperi? «Dal mio punto di vista la filosofia della scienza è un insegnamento assolutamente inutile, inventato dai filosofi e non dagli scienziati, nel senso che non ho mai visto uno scienziato che si sia mai preoccupato di avere una legittimazione filosofica. Gli scienziati lavorano nei loro laboratori, e i filosofi della scienza intervengono nella presunzione di dire agli scienziati quali sono i criteri con cui loro operano, ma gli scienziati lo sanno benissimo. Per cui la filosofia della scienza sarebbe proprio un insegnamento che io abolirei perché consiste sostanzialmente, da parte dei filosofi, nel proclamare che la scienza è importante; ma gli scienziati lo sanno già». C'è stato un tempo in cui la filosofia si chiamava scienza. Ora, in epoca moderna, la scienza, figlia della filosofia, nega quell'origine e annuncia una sua storia: la metodologia. Rivendica, così, un pensiero che si espone all'esperimento ma, al tempo stesso, non si sottrae nell'offrire un progetto sul mondo. E la filosofia? «Diciamo subito che la scienza è sostanzialmente metodo e lo riconoscono anche i filosofi. Basta pensare a Nietzsche e Heidegger. Ad esempio, Nietzsche afferma che ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza, perché la scienza senza metodo è una chiacchiera. E sempre Nieztsche sottolinea che le idee più importanti vengono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi. Se Nietzsche, che non era proprio uno scienziato, si rende conto che la scienza è sostanzialmente metodo, individua una dimensione molto significativa, ma segnala anche che il metodo ingabbia le visioni del mondo. Il problema si pone, così, in questi termini: la scienza quando segue i suoi metodi fa perfettamente il lavoro suo, se la scienza si propone invece come visione del mondo, per cui il mondo deve essere tradotto nei suoi aspetti, nelle sue qualità in quantità, numero, misura, ecco che allora la scienza compie un'operazione impropria perché presume di più di quello che il suo metodo non le consenta. Il suo metodo le permette di trovare delle cose, ma guai se il suo metodo diventa la forma universale per la lettura del mondo». C'è chi sostiene che la pratica scientifica sia altro nome di tecnica. Ma c'è una pratica filosofica parallela? «Io direi innanzitutto che la tecnica non è tanto una pratica scientifica, quanto l'anima della scienza. Io non sono tra quelli che pensano che la scienza è pura e la tecnica una sua applicazione. Ritengo, piuttosto, che la tecnica sia l'essenza della scienza, perché la scienza non guarda il mondo per contemplarlo, ma per manipolarlo e, di conseguenza, l'intenzione tecnica è ciò che apre lo sguardo scientifico. Sarebbe un po' come se si recassero in un bosco un poeta e un falegname: i due non vedrebbero la stessa cosa. Per quanto riguarda la filosofia, oggi è nata la cosiddetta pratica filosofica. Dico che è nata oggi perché è da vent'anni che questa dimensione terapeutica si è sviluppata in Francia, in Olanda, in Israele, in America, ma, in realtà, la filosofia è sempre stata una pratica di vita. Se noi leggiamo Platone o ascoltiamo l'insegnamento di Socrate ci accorgiamo che quest'ultimo ci invita, attraverso la filosofia, a raggiungere il governo di sé e a comportarci nel mondo secondo la giusta misura. Questa è pratica di vita, ma la filosofia lo è sempre stata. Prima di diventare una faccenda accademica era un modo di stare al mondo, nella forma più ragionevole possibile». Nel tuo ultimo libro («La casa di psiche», Feltrinelli ndr) metti in luce l'insensatezza del nostro vivere quotidiano, laddove l'esistere è "soltanto un mezzo nell'universo dei mezzi". La scienza, allora, si propone come cura attraverso la psicologia. Ma questa parola, "psicologia"

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