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La «cieca di Sorrento» fece la fortuna di Totò

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Il Principe ricordava così il suo debutto: guadagnavo due soldi in una baracca di piazza Risorgimento

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Il punto nodale verte su questo dilemma: Totò fu una marionetta meccanica e surreale, oppure un provocatore, sempre pronto a suscitare riflessioni e polemiche, volte quasi sempre a smascherare le ammuffite convenzioni e i più coriacei luoghi comuni del perbenismo borghese? Fu probabilmente l'una e l'altra cosa, ma soprattutto un artista piuttosto complesso e versatile, assai abile nell'inserire - specialmente negli anni della maturità - folgoranti lampi di un agrodolce surrealismo, manifestati e articolati mediante l'ineffabile mimica e il coloritissimo lessico, in un contesto di recitazione e rappresentazione saldamente ancorato alle contingenze sociali. Ma restano tuttora pressochè ignoti i suoi più remoti esordi artistici. Pochi, infatti, sanno che il grande attore aveva cominciato a intascare i primi, sudati quattrini ricoprendo un piccolo ruolo in una versione teatrale del fosco fumettone lacrimogeno che è il romanzo "La cieca di Sorrento" di Francesco Mastriani (1819-1891), il pletorico rapsodo dei bassifondi partenopei. «Guadagnavo due soldi per sera, - ricordò il principe della risata in un'intervista - Recitavo in una baracca di piazza Risorgimento, a Roma, impropriamente chiamata "Teatro salone sant'Elena". Era il 1922. Facevo parte di una compagnia di guitti». Di lì a qualche anno ritroviamo Totò intento a calcare la ribalta del mitico teatro "Tasso" di Sorrento, che già si era rivelato un buon trampolino di lancio per Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo. Le sue esibizioni nella terra delle Sirene sortirono l'effetto sperato: gli consentirono, infatti, di prodursi di lì a poco nel patinato santuario del varietà romano, che era a quel tempo il teatro "Jovinelli". Uno dei primi estimatori del grande attore napoletano fu lo scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini (senza di lui molti dei film di Vittorio De Sica non avrebbero avuto il successo che ebbero), il quale ogni volta che al teatro c'era Totò, non soltanto era lieto di andarvi, ma si trascinava dietro autorevoli letterati e artisti di quel tempo, come il futuro Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo, il romanziere di origine calabrese Leonida Repaci, l'acclamato pittore Giorgio De Chirico, il poeta Raffaele Carrieri, lo scultore Marino Marini e il pittore piemontese Carlo Carrà. Zavattini ricordava con piacere il suo primo approccio personale col celebre comico in una stanza dell'albergo "Plaza", sito nelle immediate adiacenze del duomo di Napoli. Parafrasando un popolare motto di un suo film, potremmo asserire che Totò si nasce e lui "lo nacque". La sua, fu una gloria vera e meritata. "Il suo genio - ha scritto in proposito il compianto scrittore napoletano Luigi Compagnone - è sempre stato una dismisura per lui, come per Gogol, non c'è mai stato nulla di medio, di ordinario. Si potrete dire di lui quel che un famoso saggista osservò riguardo allo scrittore russo: 'Egli conosce soltanto lo smisurato'. E Totò lo ha conosciuto come pochi". La più gratificante e ambita aureola al genio di Totò l'ha concessa i1 più severo dei giudici, il tempo, assicurando alla sua vasta e multiforme produzione cinematografica un'ineguagliabile tenuta postuma. (Senza i suoi film - trasmessi e ritrasmessi fino alla noia - molte emittenti televisive locali avrebbero già da tempo chiuso i battenti). Eduardo De Filippo così commentò il decesso nel 1967 del comico suo conterraneo: «Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate, di chioschi di acquaioli, più affollate di gente aperta al sorriso, allora, quando alle dieci di mattina le attraversavo a passo lesto - avevo quattordici anni - per trovarmi puntuale al teatro Orfeo, un piccolo, tetro e lurido locale periferico, dove

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