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Persi nel deserto in attesa di una battaglia che non arriva mai

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«Jarhead» è espressione americana di gergo per indicare i Marines, con i capelli rapati a zero e perciò la testa (head) simile a una giara (jar). Se n'è servito un ex Marine, Anthony Swofford, per un suo libro in cui rievoca la sua partecipazione, nel '90, alla Guerra del Golfo e a quella battaglia nel Kuwait definita Tempesta nel Deserto (Desert Storm). Una battaglia, però, guerreggiata e vinta soprattutto dagli aerei, con gli uomini, invece, quasi sempre inattivi nonostante la loro ansia quasi ossessiva di scontrarsi con gli irakeni invasori. Sam Mendes, dopo due film ormai celebri («American Beauty» e «Era mio padre»), si è servito di questo libro per dirci, con la collaborazione al testo di William Broyles, uno scrittore reduce dal Vietnam, non tanto della guerra ma della «non guerra» in linea un po' con «Il deserto dei Tartari» del nostro Buzzati e con le aspirazioni sempre deluse dei suoi protagonisti di imbattersi nel nemico. Una cronaca, perciò. All'inizio il lungo, faticoso addestramento dei Marines prima di lasciare il suolo americano. Citando, forse involontariamente, quello splendido documentario, «Les Marines», realizzato nel '57 da Francois Reichenbach, nelle cifre di una disciplina durissima spinta all'esasperazione, con l'accento sulla bramosia di combattere di quei militari suggerita da una pagina sconvolgente: l'eccitazione e l'entusiasmo con cui assistono alla proiezione di «Apocalypse Now» e alla famosa sequenza degli elicotteri con la cavalcata delle Walchirie nella colonna sonora. In seguito, la non guerra nelle trincee scavate tra la sabbia e la lunga, vana e snervante attesa di un combattimento che non arriverà mai. Con un disegno psicologico preciso del protagonista, interpretato da Jake Gyllenhaal dopo «Brokeback Mountain», in cui si riflette l'autore del libro con i suoi ricordi, segnato dall'inerzia, dello spaesamento e dallo sconforto, non dimenticando mai, però, le lacerazioni interiori. Come in quell'altra pagina visivamente e drammaticamente terribile che lo vedrà, con un gruppo di compagni, soffocato e quasi accecato dalle nuvole nere dei pozzi di petrolio dati alle fiamme, e con due soli faccia a faccia con il nemico: uno, come tiratore scelto, nell'impossibilità di uccidere a distanza due ufficiali irakeni, l'altro, più da vicino, con il cadavere carbonizzato di un irakeno, ultima testimonianza di una precipitosa ritirata. La conclusione, tornati alla vita civile, sarà che nessuno di quei Marines, anche se non hanno sparato, si dimenticherà di quel fucile con cui era stato trasformato in una macchina per uccidere. Una pausa volutamente amara (e forse polemica) dopo l'enunciazione, dal vivo e come dal vero, di una Apocalisse vista soprattutto da lontano.

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