di LORENZO TOZZI IN OGNI dramma musicale che si rispetti il succedersi delle varie ...
Ma se c'è un'opera in cui questa tensione, come per un arco teso a scoccare una freccia, si tocca (o deve toccarsi) con mano ed è evidente serpeggiando nell'intera partitura, questa è proprio il «Rigoletto» di Verdi, ora in scena al Teatro dell'Opera di Roma sotto la direzione musicale di Bruno Campanella. Il tema (musicale ma drammatico insieme) della maledizione lo attraversa infatti dal preludio sino all'epilogo, segnando come un tratto capriccioso del destino tutta la vicenda che tragicamente coinvolge il buffone di corte mantovano e la sua giovane e innocente figlia, vittima consapevole di un amore sbagliato. Niente tensione, nè arco, nè frecce invece all'Opera di Roma dove si faceva ricorso ad un allestimento scenografico ed alla regia di Giovanni Agostinucci non proprio insospettabili, visto che erano state concepite inizialmente per uno spazio abnorme ed oblungo come lo Sferisterio di Macerata. La grandiosa scala alla Vanda Osiris che attraversa ingombrante la scena in tutti e tre gli atti, incastonata tra un portale albertiano (unico elemento architettonico di riferimento storico) e due semplicistici scheletri di gabbiotti in legno per animali a significare ora la casa di Rigoletto, ora la bettola della non irreprensibile Maddalena, poteva essere forse sopportabile all'aperto, ma diventa immotivata ed incombente al chiuso. Ed il suo significato comprensibile di simbolico divario tra le classi sociali si dimentica presto, rendendosi più evidente invece l'assurdita di far svolgere tutto all'aperto, cioè pubblicamente. Ecco così ad esempio il perigordino (aristocratica danza del primo atto che rende a dovere il clima ipocrita della società nobiliare) risolversi in una sorta di fatua palestra per schermitori bellimbusti, mentre il Duca donnaiolo diventa una sorta di Zorro che sfodera e rotea spesso la spada al vento senza necessità veruna. L'opera si diluisce poi e via via si affloscia musicalmente, risollevandosi solo al terzo atto (qualcuno grida nell'intervallo «non fare la marcia funebre») ed alla fine salve di fischi accolgono il regista sortito alla ribalta. Musicalmente parlando, questo «Rigoletto» non vive insomma di interne tensioni nè pulsioni sanguigne ed i cantanti, lasciati a se stessi, si preoccupano più di cantare che di recitare. Roberto Frontali, un troppo aitante Rigoletto più brutto che deforme, non entra mai veramente nel ruolo e difetta della corda patetica. Ramon Vargas è un Duca di buona lega ma non proprio vocalmente irresistibile, la russa Olga Makarina (Gilda) canta ma non incanta senza entrare mai nel cuore dello spettatore. Sicuro, ma senza profonda risonanza, lo Sparafucile di Konstantin Gorny. Più tra le righe la Maddalena spigliata di Tiziana Carraro che si difende nel celebre quartetto decisivo. Eccellente invece il coro ben addestrato. Tiepide accoglienze con dissonanti disapprovazioni finali. L'opera volerà in Giappone a rappresentare la lirica italiana. Auguri di prammatica.