Polveriera Israele
Da quando si costituì sulle coste orientali del Mediterraneo lo Stato di Israele. Da allora ad oggi non c'è stata tregua in quell'area. L'uscita di scena di Ariel Sharon e la vittoria di Hamas hanno acuito la crisi. I problemi sono politici, ma sono anche culturali. La riapertura del dialogo fra israeliani e palestinesi presuppone la disponibilità a un riconoscimento reciproco, alla comprensione delle rispettive esigenze. Esiste un margine di ottimismo? Due scrittori si sono trovati in questi giorni a Roma per presentare i loro libri. Jill Hamilton - giornalista e storica - ha scritto "Il Dio in armi": una ricostruzione molto documentata e suggestiva del ruolo svolto dai governanti inglesi nella nascita dello Stato di Israele. Meir Shalev è al suo sesto romanzo ("La casa delle grandi donne"), che si annuncia già come un best-seller. Shalev è ebreo, e vive a Gerusalemme. Hanno, sul problema, punti di vista diversi. Jill Hamilton ha una visione storica: ricorda una frase di Lord Byron: "Il colombo selvatico ha il suo nido, la volpe la sua tana, gli uomini il loro paese: Israele ha solo la sua tomba". Sono stati proprio gli inglesi ad aiutarli a procurarsi una casa, nei luoghi della Bibbia. Loro che per primi (dai tempi di Guglielmo il Conquistatore (nell'XI secolo) e poi con l'editto di Edoardo I (due secoli più tardi) che li espulse dal suolo britannico. Non è prevenuta, dunque, nei confronti di Israele, ma non esita ad attribuire a loro pesanti responsabilità nei bagliori di guerra in Medio Oriente. La malattia di Sharon - sostiene la Hamilton - non ha aggravato la crisi. «Sharon non avrebbe mai presentato un progetto di pace accettabile». L'evacuazione dei coloni nella striscia di Gaza e in Cisgiordania non ha avviato a soluzione il problema: perché le strade di accesso sono ancora in mano agli israeliani, perché i coloni sono stati trasferiti soltanto pochi chilometri più in là, perché a Betlemme c'è il coprifuoco, perché Ramallah è raggiungibile soltanto compiendo un percorso lunghissimo, perché il governo israeliano ha giudeizzato la città di Gerusalemme, sacra a tre religioni. Non c'è ragione per essere ottimisti, in definitiva. Soltanto gli Stati Uniti potrebbero agevolare il processo di pace, ma a condizione di pretendere da Israele che tolga di mezzo i bulldozer e i caterpillar. Jill (Duchess of Hamilton, è scritto sul suo biglietto da visita) ha un progetto: formare un comitato, composto da rappresentanti delle tre religioni (ebrea, musulmana e cristiana) per salvare la chiesa della Natività a Betlemme. Meir Shalev ritiene che il quadro della situazione sia cambiato in peggio con la morte politica di Sharon e la vittoria elettorale di Hamas. «La pace si è allontanata», dice. Ma è meno pessimista della Hamilton. «La forza di Sharon risiedeva proprio nel fatto di non essere un uomo di pace, che aveva capito - però - quanto fosse indispensabile perseguire la pace». Non è d'accordo con chi sostiene che quelli di Hamas sono tutti terroristi. «Sono nemici», ammette: «ma è con i nemici che si fa la pace, mica con gli amici». Gli Stati Uniti qualcosa hanno fatto, convincendo Sharon ad abbandonare parte dei territori occupati. Ma la polveriera è stata allestita da altri (Inghilterra e Francia in primo luogo) che nel secolo scorso hanno diviso il territorio in modo arbitrario. Israele, nel futuro immediato, deve ascoltare di più i propri alleati, facendosi guidare dagli altri Paesi e dalle organizzazioni internazionali, ascoltandone i suggerimenti, favorendone le mediazioni. I palestinesi non si devono far suggestionare dal fondamentalismo. È l'Islam moderato che deve trovare coraggio, farsi vivo, rendersi più attivo. Le valutazioni si allargano a quanto sta accadendo in questi giorni. alle minacce contro l'Europa del fanatismo islamico. Alla "guerra delle vignette". La Hamilton preferisce non esprimere giudizi. «Hanno parlato già in tanti, in troppi», dice. Shalev muove da una premessa analoga: «Potrei rifiutarmi di rispondere. Sto qui