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La maschera contratta di Hans lo schizofrenico

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Louis Nero, da quando fa cinema, sia con i corti, con i lungometraggi, ha sempre dimostrato di voler seguire le vie ardue della sperimentazione. Lo si è visto di recente anche in «Piano sequenza» in cui si è ingegnato a svolgere una vicenda piuttosto complessa e fitta di personaggi valendosi di un unico piano sequenza, quella tecnica che consente di dipanare l'azione con immagini lasciate fluire, anche in ambienti diversi, senza interruzioni. Oggi, se possibile, affronta strade anche più ostiche perché si impone di raccontare la storia di uno schizofrenico, l'Hans del titolo, non dall'esterno, ma dall'interno stesso del personaggio; alla luce di tutto quello che gli fa sentire o immaginare la sua malattia. Così, dopo un preambolo che potrebbe indicare in un trauma infantile le origini del disturbo di Hans e una sua presentazione nell'ambito di una società che si occupa dello smaltimento dei rifiuti, si dà spazio, fino alla fine, alle fobie che di continuo lo assalgono: la prima, appunto, i rifiuti da cui non solo si sente soffocato ma con la convinzione di essere costretto a cibarsene da nemici misteriosi tutti di colore (li chiama «negri») a causa dei quali, seconda fobia, si farà invadere da sentimenti così violentemente razzisti da commettere gesti inconsulti. E li commetterà, ai danni di una infermiera di colore, anche quando finirà in un manicomio dove continuerà a dire di non essere pazzo. Tutto, appunto, sentito e espresso dal protagonista. Gli incubi, le fantasticherie, i soprassalti d'odio. Con un itinerario che via via lo sprofonda nel nero e nel vuoto, senza possibilità di sottrarvisi. Un'impresa indubbiamente non facile, anche perché la rappresentazione, pur partendo dalla visione soggettiva di Hans, non riesce sempre a tenersi in quella cifra, allargandosi anche a situazioni laterali difficilmente riconducibili a una vera e propria unità di rappresentazione. Si sente, di sfondo, anche un certo teatro dell'assurdo e l'apparizione, a un certo momento, di Freud e di Jung induce a vedervi anche dei riferimenti medici alle turbe psichiche, ma non è agevole considerare l'insieme alla luce di una vera logica drammaturgica: per quel tanto di insoluto e di approssimativo che lo sperimentalismo non basta a giustificare. Nei panni di Hans c'è Daniele Savoca, già protagonista di «Piano sequenza», qui sempre con una maschera contratta: per dirci della pazzia che lo stravolge.

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