Olmi riunisce Antonutti e Ledda per rifare Padre padrone

E per questo lo hanno premiato, qualche mese fa, a Genova: un alloro per la miglior voce dell'anno. Omero Antonutti - l'ambiguo Calvi ne «Il banchiere di Dio» di Ferrara, lo spietato Abramo di «Padre padrone» dei fratelli Taviani, il protagonista di «Un eroe borghese» di Placido ma anche della pellicola di Corbiau sul più celebre dei castrati, Farinelli - va oltre il doppiaggio, che pure lo impegna spesso. Interpreta con le corde vocali. «Mi piace molto. Sono la voce recitante con le orchestre sinfoniche, ho letto sulla musica di Stravinsky "Pierino il lupo". E poi ne "Il dono di Natale", di Dickens, ho dato voce all'avaro, antesignano di Paperon de' Paperoni». Ma adesso c'è un disegno che intriga questo attore friulano schivo e rigoroso, come la sua faccia scavata e incorniciata dai ricci scuri. Perché è un ritorno al passato, a trent'anni fa. Leggere «Padre padrone» in italiano, mentre Gavino Ledda gli fa da contraltare, con lo stesso testo in sardo. L'idea è venuta ad Ermanno Olmi nella cornice del Premio Nonino, andato tra gli altri allo scrittore sardo. E Olmi, in questo periodo a Roma per curare doppiaggio e audio nel suo nuovo film, che sarà terminato in primavera, ha continuato a «rifinire» il progetto. «Gavino pensa da anni a rifare il suo testo-rivelazione del '75 nella lingua in cui l'ha immaginato, quella della sua terra - la butta là Olmi - allora sarebbe un esperimento interessante, di impatto anche spettacolare, che con Antonutti facesse una sorta di duo, con la sola fascinazione dei suoni. Lo sfondo potrebbe essere una delle piazze dove l'incontro con gli autori ormai attira tanto pubblico. Il Festival della Letteratura di Mantova, per esempio». Antonutti non ci ha pensato un momento solo su. Con Olmi, nel '94, ha girato «Genesi - La creazione e il diluvio». «Lui la mia voce la conosce bene, mi diede la parte del Vento ne La leggenda del bosco», spiega l'attore. Poi lascia spazio ai ricordi sul set di «Padre padrone» e alle polemiche che seguirono al film. «Ledda disse che avevo snaturato Abramo, il genitore che lo schiavizzava e lo separava dal mondo. Del resto è ovvio che il cinema faccia altra cosa rispetto al testo letterario da cui prende spunto. La mia interpretazione non era naturalistica, non dovevo essere solo un pastore sardo. Per i Taviani il romanzo era un pretesto per raccontare una situazione universale, un topos: la sottomissione del figlio al padre, lo scontro violento tra l'uno e l'altro. Ma io non me la sono mai presa con Ledda, il suo punto di vista era giusto. Piuttosto mi trattavano malissimo in Sardegna. Ero l'uomo che aveva rivelato cose sulle quali non si doveva alzare il velo». Eppure il grande successo del libro venne dopo il film. «Sì, ma rimase il film l'oggetto di risentimenti. Perfino Cossiga ebbe da ridire. Avvenne quando andai da lui, parecchi anni dopo, al Quirinale con i Taviani a presentare La notte di San Lorenzo. Durante la cena che seguì Cossiga mi disse: "Lei è l'interprete di Padre padrone? Beh, non ci è piaciuto. Noi sardi siamo permalosi, i panni sporchi ci piace lavarli in casa"».