Ligabue

Qualcuno ci si scopre riflesso dentro, altri vedono soltanto un vetro vuoto, e passano oltre. Ma quando sei sul palco lo specchio diventi tu che suoni, e cerchi le tue emozioni nei volti che ti stanno di fronte. Io non ho pudori nel mio mestiere, e voglio ridere urlare e piangere insieme a tutti gli altri. Non ho bisogno di essere rassicurato, è più un'esigenza psicofisica, l'ultimo rito liberatorio. Qualcosa che ti strappa dentro, come un gol o un orgasmo. Il rock è la miglior medicina dell'anima». Ligabue sospira e pensa a quel che accadrà martedì, quando all'Alcatraz di Milano finalmente vedrà le facce del suo pubblico. E capirà. L'inizio del tour 2006 è come il negativo di una foto di Campovolo: il controverso concertone del 10 settembre scorso, con un record europeo da 160 mila e passa spettatori, fu un punto di non ritorno. «Ogni volta che ho provato a pensare in grande ho dovuto confrontarmi con qualche elemento avverso. Non solo problemi di suono: a San Siro, anni fa, mi tagliai un dito alla prima pennata sulla chitarra. Avevo la maglietta piena di sangue, ma volevo godermi lo show, altro che smettere. O come all'Olimpico, nel 2002. Venne giù un uragano estivo. Sotto il palco c'erano cinque centimetri d'acqua sui cavi elettrici. Assurdo. E pericoloso. Ma era una sensazione così figa», ride Luciano, con quel suo ghigno da apache adottivo. Stavolta si ricomincia dai piccoli club, con i vecchi sodali dei ClanDestino («non ci eravamo mica mai separati davvero, la loro alchimia un po' britannica funziona» dice), poi sarà la volta dei palazzetti assieme alla Banda, degli stadi (con entrambi i gruppi), infine dei teatri, in situazioni più intime e acustiche. «Questi di inizio tournée saranno concerti muscolari, molto rock'n'roll. Proporremo dal vivo "Nome e cognome", e rispolvereremo pezzi di dieci anni fa, cose amate dai fans ma poco suonate, come "I duri hanno due cuori", o una "Walter il mago" completamente riarrangiata. Oppure "Uno dei tanti", che raccontava di una mia crisi d'identità a un certo punto della carriera, e che era passata quasi del tutto inosservata». Proporrete anche "A che ora è la fine del mondo?", il classico sulla dittatura della tv? «No, se ne parlerà più avanti. Ma il suo messaggio resta. In troppi non riescono a vedere la realtà se non attraverso il filtro della televisione. E io chiedo ancora a tutti: ma se mancassero 48 ore al giudizio universale, vivreste il tempo residuo a pieno ritmo o guardereste la diretta di Emilio Fede dallo schermo? Però lo dico con ironia, sorridendo». E Berlusconi che straripa su ogni canale, fa sorridere? «Continuo a pensare che questo Paese non sia ben rappresentato dai suoi leader. Vinca la sinistra o la destra, va comunque risolta questa anomalia di un premier con totale accesso ai mezzi di informazione. Manca la correttezza della competizione. Non è ad armi pari». Prodi fa bene a tacere? A esitare sui faccia a faccia? «Cosa potrebbe fare? Ogni giorno la sinistra trova qualcuno che gli indica la strategia, che obietta sui silenzi e sulle dichiarazioni. Io non sono un analista. So che la politica va affrontata in modo totale. Quando accettai di fare il consigliere comunale per il Pds, qui a Correggio, capii che combinare qualcosa di sensato qualcosa per la musica sarebbe stato molto complicato. Figurarsi per i grandi temi, quelli che oggi sono priorità in Italia: il rilancio dell'economia, la sanità, la qualità di vita della gente, che non riesce ad arrivare alla fine del mese. Le piccole necessità che fondano il quotidiano, piuttosto che le grandi opere. Ho le mie idee, ma non più la passione di quando avevo vent'anni, in quella stagione irripetibile in cui pensavi davvero di cambiare il mondo con l'impegno. Ora ti viene solo il mal di fegato, i sogni non trovano casa». Ma Prodi è un vero mediano? «Mi piacerebbe che lo fosse. Quando decise di tornare al centro della politica italiana, volle affidare la sua immagine a quella mia canzone. Mentre Berlusconi cercava credibilità attravers