Doppio orrore: dopo lo sterminio l'indifferenza
Kecskés,Ungheria-Germania-Gran Bretagna, 2005. L'OLOCAUSTO. Ricordato di nuovo con l'adesione piena e convinta di ogni coscienza civile. L'impresa meritoria se l'è assunta oggi il Premio Nobel ungherese Imre Kertész che ha sceneggiato per il cinema un suo libro, «Essere senza destino», pubblicato in Italia da Feltrinelli, in cui aveva rievocato la sua terribile esperienza, a soli quattordici anni, nel Lager di Buchenwald. La regia è di un altro ungherese famoso Laios Koltai, celebrato fino ad oggi come direttore della fotografia non solo in 14 film del suo grande connazionale István Szabó, ma anche in due del nostro Giuseppe Tornatore, «Malèna» e «La leggenda del pianista sull'oceano». La vicenda Kertész l'ha divisa in tre parti. La prima, ancora a Budapest, con il giovane protagonista, chiamato Gyuri nel libro, che già con la stella gialla sul petto, assiste alla partenza obbligata del padre verso un cosiddetto campo di lavoro che sarà invece Matthausen, dove morirà. Vedendosi presto avviato anche lui verso un campo che, dopo varie peripezie, lo farà appunto arrivare a Buchenwald. La seconda parte è tutta sulla vita, anzi, sulla «non vita», a Buchenwald: la fame, le percosse, le umiliazioni, l'ombra della morte sempre imminente, una malattia che, dopo, un intervento a un ginocchio e un ricovero, rappresenterà quasi una pausa, sia pur precaria, all'orrore. Con la terza, ma senza clangori, si dice dell'arrivo degli americani, della chiusura del Lager di un ritorno a casa dove però il giovane protagonista non troverà né comprensione né addirittura, credibilità. Quasi quella follia della storia in cui era stato coinvolto se la fosse soprattutto immaginata... Per le tre parti, Koltai, che la direzione della fotografia l'ha ceduta a un collega giovane, quel Gyula Pados, apprezzato da noi di recente anche per un altro film ungherese, «Kontrol», ha affrontato tre stili diversi: nella prima, con una dominante color ocra; nella seconda, quasi solo in bianco e nero, nella terza, di nuovo l'ocra. Puntualizzando il racconto, in linea con la sceneggiatura di Kertész, con una serie di quadri, o «stazioni», collegate dal filo conduttore dell'angoscia, sempre però in sottotono, sia a confronto con l'atroce, sia al momento della liberazione, sia, da ultimo, in quella della delusione. Mentre un altro grande del cinema, il nostro Ennio MOrricone, sottolinea quell'angoscia con le note di una quasi biblica «lamentazione», tanto più sommessa quanto più lacerante. Il protagonista è un ragazzetto, Marcell Nagy, già visto qui da noi nel televisivo «I ragazzi della via Pal». I suoi occhi pieni di ombre sembrano citare anche Primo Levi: quando si chiedeva «Se questo è un uomo».