Vasco Rossi strappa la promessa a Berlusconi: «Abbasseremo le tasse sulla musica»
«Ma è vero che i dischi si vendono sempre meno?», chiedeva immacolato Berlusconi al profeta di Zocca, il quale, forse, non aspettava altro. C'è una ragione molto valida che indurrebbe a credere all'ingenuità del premier, visto che la sua carriera di cantante-entertainer si chiuse, non tanto virtualmente, nel 1960, cioè in un periodo pre-boom e dunque, almeno in questo, non è stato poi così fortunato, poiché non ha fatto in tempo a beneficiare della grande epopea del vinile, quando a vendere trecentomila copie si rischiava il licenziamento. Ha ragione Rossi a sollevare il problema, mai risolto, dell'Iva, e forse, mentre Berlusconi «faceva i tavoli» - ruolo consolidato insieme al fido Confalonieri, buon pianista «mainstream», ai tempi degli ingaggi nelle flotte Costa - ha avuto modo anche di ricordare come il genere disco sia considerato dall'esattoria di stato un prodotto voluttuario, alla stregua di un profumo, ben lontano dunque da quella considerazione culturale a cui sarebbe giusto auspicare. Ma per correttezza Vasco Rossi avrebbe dovuto aggiungere che i dischi costano tanto anche per l'avidità degli artisti e in particolare dei cantautori, quella «classe dirigente» dei cantautori di cui l'artista emiliano fa parte da molto tempo. Quella classe dirigente che è ben lontana dal guadagnare quel misero tre, quattro o cinque percento di royalties dai propri dischi come accadeva in passato. In realtà Rossi - ma diciamo anche Venditti, De Gregori, Daniele, Ligabue, Zero - e almeno un'altra mezza dozzina di nomi importanti - sono ormai imprenditori di loro stessi. Delle loro canzoni sono autori, produttori, editori, discografici e promotori e le quote maturate da ogni singolo prodotto possono collocarsi anche sopra il 50% ed è su queste cifre che devono essere valutate le 800.000 copie di «Calma apparente»( Eros Ramazzotti), le 600.000 di «Convivendo parte 2» (Biagio Antonacci), le 500.000 di «Nome e cognome» (Ligabue) e via di questo passo. Sarà difficile che Berlusconi ceda sull'Iva, ma altrettanto improbabile che la classe dirigente delle sette note decida di rinunciare a qualche percentuale, in sostanza ad autoridursi il compenso. Insomma una questione fra miliardari. Del resto che ci sia burrasca nell'ambiente non è cosa nuova. Al Midem di Cannes attualmente in corso, si concluderà il 26, sembra profilarsi il rischio di qualche tensione in merito alla «pacifica convivenza» dei partecipanti italiani nello stand «Italia in Musica», allestito in collaborazione fra Siae, Imaie e le associazioni di discografici Fimi, Afi e Pmi. Il moltiplicarsi delle categorie e dei cartelli sta creando una situazione di grande disagio, simile a quella in corso da anni nella boxe, dove le corone mondiali, ormai parcellizzate fra innumerevoli sigle, hanno finito per vanificare i risultati di pugili meritevoli. I recentissimi dati della Ricerca Bocconi sul sistema musica in Italia - l'elaborazione è stata curata dal Centro Ask, Art & Science for Knowledge dell'Università stessa - conducono alla stima di 2,284 miliardi di euro relativi al fatturato complessivo del sistema musicale italiano, con una crescita del 4,35% rispetto all'anno precedente. Mentre calano le cifre dei supporti musicali fisici(-5,57%), appare in forte crescita la distribuzione digitale(+ 57,3%), che contribuisce all'incremento (+13,7%) del consumo finale, indicato in 1,046 miliardi di euro. L'interpretazione di questi dati deve per forza di cose diventare modulare. La combinazione tra la crisi del settore discografico e la significativa crescita della fruizione di musica in altre forme suggerisce un ripensamento radicale dei modelli di business su cui si è retto fino ad oggi l'intero settore. È doveroso parlare di «cross medialità» anche per il prodotto disco, visto che ormai chiunque, debuttanti e artisti affermati, major ed etichette indipendenti, pensano ad un sistema musica