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Il jazz come un luogo dello spirito

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con ribalderie e viaggi immaginari

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Il libro di Stuart Isacoff, «Temperamento. Storia di un enigma musicale», come l'approccio allo strumento di Paolo Conte, è un'appassionante, e a tratti esilarante, storia della conquista di dodici note. Il debutto romano al Teatro Sistina (dove rimarrà fino al 22) ha consacrato il musicista piemontese presso un pubblico sofistificato e competente, giudizioso e disposto ad ogni ribalderia strumentale. Muto e rispettoso degli applausi fino alla fine, Conte ha officiato con stile e bravura infinita la degenerazione delle èlite musicali, il declino di una civiltà inevitabile come quello degli individui. Sperando tutt'al più di ritardare leggermente il processo. Ma nient'altro. Attraverso venti canzoni e un bis, equamente divise in due tempi, Conte ha presentato il suo mondo, un universo musicale che non è mai cambiato nel corso degli anni: dagli omaggi alle calde e indolenti atmosfere sud-americane («Alle prese con una verde milonga», «Il regno del tango» e «Jimmy ballando») fino alla bozzettistica del jazz che rappresenta qualcosa di più di una citazione («Boogie», «Via con me», «Sotto le stelle del jazz» e la conclusiva e toccante «Eden»). Il jazz di Paolo Conte è più che altro un luogo dello spirito, un modo come un altro per citare «l'epoca in cui le automobili avevano una faccia: due occhi, un naso, un'espressione», ma anche i nichelini del juke-box e dei distributori di noccioline; un jazz creolo, con un sapido uso nel ricreare la sezione (che nel suo caso è quella di Paul Whitman piuttosto che di un Duke Ellington). Una formazione di rara efficacia, con una naturale predilezione per gli accenti severi che esaltano le tensioni architettoniche, con i sassofoni (alto, tenore e baritono) che ruggiscono ma con il suono del sax soprano sempre pronto a svettare e a richiamare la Parigi meticciata del '59 di Sidney Bechet. Sono stati proprio i sassofoni - strumento belga ma afro-americano come pochi - a sottolineare alla perfezione il tracciato a volte rabbioso delle linee e dei contorni, quel bianco e nero tanto caro a Conte che nelle sue mani non è mai privo di sfumature. Anzi, vive di sfumature, che diventano beige, marron, amaranto, avana. I suoi colori preferiti. «Parole d'amore scritte a macchina», «Sparring partner», «Sonno elefante», «Diavolo rosso», dovrebbero essere i momenti «minori» di un artista che non deve dimostrare nulla e lo sa, brani che il pubblico riconosce a distanza e apprezza, sia pure nella versione scarna, che a volte fa venire in mente - sarà per via degli smoking - la concentrazione e la perfezione stilistica del Modern Jazz Quartet di John Lewis, espressione del cosiddetto jazz da camera (ma che valanga di swing!) e formazione particolarmente in voga quando il giovane avvocato astigiano debuttava con le bacchette in mano dietro ad un vibrafono. Strano che fin qui non abbia mai fatto un omaggio all'immenso e schivo Milt Jackson che di quel gruppo era proprio il vibrafonista e forse l'elemento in possesso di maggior «drive». Successo formale, con un attaccamento senza confini al proverbiale esotismo, successo di stima e forse alla carriera, ma Paolo Conte è l'unico appartenente alla «classe dirigente» dei cantautori ad aver ammesso un certo calo di ispirazione. Gli altri se ne sono guardati bene. Un calo forse fisiologico, di chi «non ha le gambe», per dirla con quel gergo ciclistico a lui tanto caro, che riesce difficile accettare appena dal palco arrivano «Bartali» e «Genova per noi», capolavori assoluti ieri come oggi. Simulatore di studios hollywoodiani, di sketch che finiscono in alcova e anticipatore di ogni banlieues privata e barricadiera, Conte ha confermato, a pieno titolo, il suo ruolo di abilissimo e irresistibile dispensatore di immagini in estinzione. Accontentiamoci. In un momento in cui i musicisti - e particolarmente i cantautori - hanno ben poco da dire e da suggerire - un artista completo e onesto, che tutte le sere si infila lo smok

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