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Per Niffoi una «Spoon River» barbaricina Camilleri, storie di sesso per principianti

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Niente forestierismi, niente pagine asettiche. Abbasso il pulp all'americana di Chuck Palaniuk, abbasso il giallo in serie alla Tom Clancy, abbasso gli intellettualismi inutili, l'erotismo finto-ingenuo alla Melissa P. E invece sì a una parola sfarfallata di senso, stratificata di suoni e di colori. Come il muggito di un muflone e il sibilo di un cuculo. Come lo zufolare di un ragazzino al pascolo, il sibilo del vento, gli umori degli amici seduti al baretto di paese, lo schiocchio della lingua davanti alla padella con la caponata, alla ricotta calda. Eccoli i nuovi dialettali, gli scrittori che rischiano di essere isolati - loro isolani - per quel vezzo di impastare nell'argilla delle parole e che invece diventano casi letterari. L'ultimo arrivato è Salvatore Niffoi, classe 1950, mezzo professore di scuola media, mezzo ceramista, mezzo scrittore. Anzi, scrittore lanciatissimo dopo che Adelphi gli ha pubblicato quella sorta di Antologia di Spoon River in prosa e in salsa sarda che si intitola «La leggenda di Redenta Tiria». Dove lo sfondo è Abacrasta, quattro case nella terra della Deledda che non si trovano in nessuna carta geografica e dove non muore mai nessuno. Almeno di vecchiaia, perché invece la gente di Abacrasta ha il vizio assurdo di suicidarsi, attaccandosi una corda al collo. Al punto che chiamano quel posto sperduto e sconosciuto, segnato dal destino e da una sorta di ineluttabile nemesi, «il paese delle cinghie». Dal canto suo inventa parole da venticinque anni, e vuol liberare la lingua dalla prigione della razionalità, Gavino Ledda, il pastore letterato che nel '75 la Feltrinelli consacrò scrittore e che adesso progetta di rifare nella propria lingua, un sardo reinventato, l'indimenticabile autobiografico «Padre padrone». E poi il fenomeno Camilleri. Con quel siciliano sornione, variegato di dialetto e fantasia, con quei commissari di poche parole, che nicchiano sullo sfondo di Vigata, altro borgo assolato di case bianche che non esiste in nessuna enciclopedia eppure è la quintessenza dei borghi di Sicilia. Isolani e isolati. Non si piegano alla globalizzazione, all'«esperanto» di tutti i popoli e di tutte le razze, al meticciato delle lingue. E forse vincono proprio perché restano con l'immaginario legato all'orto di casa, all'ovile della collina accanto, alla bottega, al commissariato di paese. Nel vocabolario di Gavino Ledda (su Raitre è appena ripassato il film dei Taviani tratto nel '77 da «Padre padrone») la prima parola nuova riguarda proprio il suo mestiere: illuttore sta per inventore, linguillìa per lingua, scrittilluttore significa scrittore, tuttiverso per universo, essescere vuol dire essere. Spiega Gavino Ledda, meglio Gaìnu de sos àghes: «Come nella pittura si è passati alla tridimensionalità con la prospettiva e poi grazie a Einstein si è scoperta la quarta dimensione, dunque la pluridimensionalità, così nella lingua si deve approdare alla rappresentazione panica del flusso della natura. Nel sardo c'è la nostra anima, i nostri orizzonti. Il dominio di Pisa ha modificato la lingua e soffocato la cultura isolana. Per esempio, bisogna ritirar fuori quel suffisso aghe che del sardo è cellula essenziale. Quattraghico, ovvero quadrimensionale, è l'idioma liberato, illuc-tore è chi passa dallo stadio primordiale a quello di profonda conoscenza, essescere, col suffisso incoativo forte inventato da me, sta per crescere nel tempo». C'era già tutto ciò nel Recanto, l'appendice lirico-poetica all'ultima edizione di «Padre padrone» pubblicata da Rizzoli nel '98 e ancora nel 2001. E ci sarà questa lingua nel prossimo lavoro di Ledda, forse una riscrittura del romanzo autobiografico cult del '75 «perché io trent'anni fa l'ho scritto in italiano ma l'ho pensato in sardo». E se la lingua di Ledda è un miscuglio di speculazione filosofica e di ancestrali cadenze, più facile - quasi istrionica - è quella di Camilleri. Nuovi fuochi d'artificio nel libro app

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