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«Padre padrone col mio vocabolario dell'anima»

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Il progetto rivoluzionario dell'autore che riceverà il 28 gennaio il Premio Nonino

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Gavino Ledda si è a tal punto inchinato alla coerenza da lasciare la cattedra di linguistica all'università di Cagliari. Ha preferito vivere con il vitalizio della legge Bacchelli, mille euro al mese. Il Premio Nonino, che riceverà nelle distillerie di Percoto il 28 gennaio, lo riporta alla ribalta, 30 anni dopo il successo di «Padre padrone», la storia autobiografica della ribellione di un bambino pastore all'autorità «oscurantista» del genitore. C'è da scommettere che altro Premio non avrebbe accettato, Ledda. Questo che si lega alla terra, alla vite prima ammansita e poi resa ardente negli alambicchi per farne grappa, questo «Risit d'âur», «barbatella d'oro» in dialetto friulano, che s'innerva nella cultura contadina, pare fatto apposta per lui. Fedele alla natura lo è fino allo spasimo, l'ex professore Ledda, 65 anni, i capelli ancora neri neri, una casa nel paese dov'è nato, Siligo, in provincia di Sassari. Ci vive con Abramo, il padre-padrone di 98 anni mai rinnegato. Lo scorso dicembre hanno sparato contro la porta di casa sua, mentre lui se ne stava a vedere la tivù. Dal basso in alto, per mettergli paura, per avvertirlo di smettere di strepitare contro la cava che vorrebbero realizzare tra le colline di Baddevrùstana, proprio là dove portava da ragazzino le greggi, insomma, lo sfondo di «Padre padrone». «Ho vissuto qui fino a 20 anni - racconta - andavo appresso al cane e alle pecore, quando pioveva e quando il sole accecava. Ma allora c'erano molti più alberi, adesso il fuoco e gli uomini li hanno distrutti». I primi soldi guadagnati Gaìnu li ha spesi per un giardino speciale, dietro casa. «Ci sono tutte le piante della Sardegna: il corbezzolo, il leccio, la quercia, l'alaterno». Dietro casa s'è costruito pure un piccolo anfiteatro dove fa scuola. È il rimando alla cultura classica, alle «favole» di Ettore e Achille, che l'hanno affascinato da ragazzetto. E il luogo da dove è partito, quello dell'affabulazione, e al quale vuole tornare. L'analfabeta che s'è acculturato in Continente (a Roma si laureò in Lettere e un anno dopo se ne andò all'Accademia della Crusca con Devoto) dice di sé: «Sono un aedo nuragico. Il mondo dei pastori l'ho raccontato da dentro, io, dall'ovile. Omero, Esiodo, Virgilio avevano parlato delle stesse cose, però da fuori». Ma perché ha lasciato l'insegnamento all'università? «Volevo dedicarmi completamente al mio progetto di liberare la lingua dalle catene, dalla corazza aristotelica, quella che le assegna un solo compito: comunicare. Nelle parole, invece, c'è l'anima delle cose». Li. Lom.

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