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Ora proponiamo l'inglese ai bambini I reality show? Spesso sono scadenti

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Tra i numerosi gioielli di famiglia c'è soprattutto la trasmissione «La storia siamo noi» il più grande ed importante progetto sulla storia a livello internazionale costituito da 230 ore di programmi mandati in onda annualmente, di cui ben 170 sono autoprodotte. Un progetto che ha ricevuto anche il plauso del presidente della Repubblica Ciampi in una lettera inviata a Minoli. La messa in onda da ieri di un nuovo progetto dedicato alla divulgazione della lingua inglese tra i bambini (le avventure di «Tracy e Polpetta», dal lunedì al venerdì su Raidue alle 8,45), è l'occasione per riflettere con il direttore di Rai Educational sullo stato della Tv di oggi, soprattutto sulla missione del servizio pubblico svilita dalla concorrenza del polo commerciale. Come reagisce un conoscitore del mezzo televisivo come lei dinanzi alla guerra d'Auditel in nome della quale si sta sacrificando la qualità televisiva? «Il servizio pubblico viene legittimato quando rinsalda il proprio patto di lealtà non con il consumatore, come avviene sempre più spesso, ma con i cittadini che dovrebbero rappresentarne l'unico obbiettivo. L'impossibilità di avere una Tv interamente finanziata dal canone, la nostra realtà, infatti, concede il 50% al canone ed il 50% alla pubblicità, mi aveva spinto alla provocazione del "pallino verde". Proponevo di etichettare con un pallino verde tutte le trasmissioni finanziate dal canone, in modo che gli spettatori utenti conoscessero l'impiego dei propri soldi. Prima di scartare definitivamente l'ipotesi invito ad approfondirla ed a rifletterci su». Crede dunque che si stia svilendo il ruolo della Tv pubblica in Italia? «In tutt'Europa, soprattutto in Francia, Germania ed Inghilterra, i servizi televisivi pubblici sono in forte crescita perché rappresentano una garanzia di pluralismo. Non possiamo noi in Italia rappresentare il bastian contrario di una tendenza internazionale. Non conviene a nessuno». Fatto sta che il nostro piccolo schermo è sempre più occupato da venditori di format e non produttori di idee. Suggerisce qualche rimedio? «Concordo sull'osservazione. Dobbiamo sfruttare le potenzialità interne all'azienda Rai che può contare su diecimila dipendenti. Credo che per molti versi la Tv generalista è stata già scritta nei cinquant'anni di esistenza del mezzo. Basterebbe solo analizzare nelle Teche Rai i programmi del passato per riscoprire e reinventare, in chiave moderna, schemi e formule in grado di dare nuova vitalità alla Tv. Una volta nei corridoi della Rai si vedevano circolare personaggi come Umberto Eco». Ma lei non era a capo di una struttura per l'ideazione di nuove proposte che si chiamava proprio «Format?» «È stata soppressa nel corso delle lunghe vicende succedutesi durante le varie gestioni ai vertici dell'azienda». Siamo allora condannati ad una Tv di soli reality show? «Anche il reality show può essere una modalità di racconto se non scade in un serial a basso costo con decine di sceneggiatori e pochi elementi reali. "Ballando con le stelle" ad esempio, format della BBC, è riuscito in maniera elegante e popolare ad intercettare il rinnovato amore per il ballo». Allora c'è speranza in una nuova Tv di qualità? «Certamente, fin quando esisteranno programmi come "La storia siamo noi", gradito sorprendentemente da un pubblico a maggioranza giovanile che desidera ritrovare le proprie radici storiche. Con la caduta del muro di Berlino e con l'apertura di archivi prima segregati, è aumentata la voglia di verità a livello internazionale». Lei, ideatore nel 1995, di «Un posto al sole», la prima soap opera italiana ancora in onda, ebbe molti detrattori, anche quando, nel 1999, andò via dalla Tv di Stato. Ha mai pensato di prendersi qualche piccola rivincita? «L'invidia e le frustrazioni sono già una grande condanna, non c'è bisogno di infierire ulteriormente. "Un posto al sole" si è rivelata un'idea

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