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L'horror coreano calza le scarpette rosse

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«The Red Shoes» è uno dei titoli più prestigiosi della storia del cinema. Lo portava, nel 1948, un film del celebre duo Michael Powell-Emeric Pressburger, e lo si è sempre citato per l'incontro perfetto, e forse mai più raggiunto, fra il cinema e la danza. Alla base aveva una favola danese di Hans-Christian Andersen, però trasfigurata in una fantasia di colori e di suoni vivificata da coreografie splendide. Oggi, con lo stesso titolo, ci arriva un horror coreano che solo in parte fa riferimento ad Andersen e che, mescolandovi una storia fosca di fantasmi, immagina un intreccio ambientato ai nostri giorni in cui le «scarpette rosse» sono quasi sempre di scena ma chiudono in sé una tale maledizione da provocare una morte violentissima a chi le indossa. Di balli si parla ancora perché quelle scarpette erano appartenute a una ballerina uccisa da una rivale per gelosia, ma il nodo centrale della vicenda si stringe attorno a una donna che, lasciato il marito da cui si era scoperta tradita, va a vivere con la sua bambina di sei anni aspirante ballerina. Le scarpette rosse le ha trovate per caso, in una stazione della metropolitana, ma da quando le possiede (e soprattutto le calza) gliene accadono di tutti i colori, ad opera, si saprà verso la fine, del vendicativo fantasma della ballerina che ne era stata la prima proprietaria. Con una conclusione in cui l'orrore arriverà al diapason. Oltre a varie oscurità, il testo non è sempre molto convincente. A parte Andersen, infatti, di cui al massimo intende raccontare un seguito, in nero, della sua favola, la sua struttura narrativa si aggroviglia attorno a personaggi, alcuni reali, altri sognati, altri, appunto, arrivati dal Di là, con una logica piuttosto scarsa. Se il film si segue, così lo si deve soprattutto ai modi con cui il regista lo ha rappresentato. Intanto con immagini in cui prevalgono dal principio alla fine dei colori cui, solo alternati con un po' di rosso, nelle scarpe, nel sangue e qualche abito. Poi con dei ritmi fabbricati apposta per evocare gli incubi, le tensioni, le angosce secondo tutti i rituali di quei film sul terrore ormai sempre più di moda in certi film asiatici, specialmente coreani. Con risultati, se vogliamo, abbastanza epidermici, ma, indiscutibilmente, con effetti giusti. Gli interpreti non hanno facce note, però, soprattutto la protagonista, Kim Hye-soo, hanno mimiche espressive. Specie quando affrontano sfumature ambigue.

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