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Il Bizet in salsa tribale convince grazie ai corpulenti attori

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UNA CARMEN sudafricana. Sempre da Bizet e Mérimée, ma ambientata oggi, in una cittadina a pochi chilometri da Città del Capo, Khayekitsha, e cantata in una delle lingue della regione, lo xhosa. Carmen fabbrica sempre sigarette e dopo una rissa con le compagne viene arresta da un don José di nome Jongiknaya un massiccio poliziotto anche lui di colore, come tutti lì, che se ne innamora, la lascia libera e, abbandonando per lei l'uniforme, va a convivere la sua esistenza senza remore. Segue la gelosia, segue il susseguente rifiuto di Carmen, cui segue, come di consueto, la sua uccisione mentre l'altro uomo, dato che lì non ci sono corride, uccide un toro in occasione di una festa tribale per permettere comunque al coro di cantare «Toreador». L'impresa di questa rilettura se l'è assunta un inglese oggi cittadino del Sud Africa, Mark Dornford-May, esordendo al cinema dopo però una fitta attività in teatro dove, tra l'altro, aveva portato in scena proprio questa stessa Carmen. Fondatore di una compagnia lirica e teatrale, la Dinpho di Kopane, si è rivolto ai usoi quaranta componenti per farli cantare e recitare (nella loro lingua) anche dallo schermo. Con una trovata, quella di accostare loro, nel quotidiano, la cronaca vissuta di quella cittadina, legando i vari momenti musicali tolti da Bizet con dialoghi spontanei fra i personaggi e accompagnandoli da canti e balli folclorici sudafricani per far anche più vibrare l'autenticità locali dell'insieme. Non sempre il tessuto narrativo, con la trasposizione in chiave contemporanea dei fatti e degli atti immaginati da Meilhac e Halévy per rivedere a fine Ottocento la novella primo Ottocento di Mérimée, riesce ad avere una sua logica, anche dal punto di vista delle psicologie dei principali personaggi, i modi però con cui la regia li ha rappresentati riscattano molto spesso questi scompensi. La cifra romantica è rimasta, ma la attualizza e la vivifica un realismo, nei contorni, quasi da cinema verità, che giunge senza fatica ad imporsi: con un impatto drammatico che, anche senza la musica, ma rafforzato da quella, carica tutta l'azione di una tensione costante, senza che niente risulti anacronistico. I cantanti, nonostante i loro fisici difficilmente corrispondano ai ben noti personaggi, si impegnano con bravura ineccepibile. Sia Pauline Malefane, una Carmen molto più tonda e popputa di qualsiasi nostro soprano, sia il suo José-Jogiknaya, un tenore corpulento e tarchiato ma, specie nei furori, piuttosto convincente. La scena sanno tenerla.

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