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Nantas e l'amore impossibile per Marilyn

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«La incontrai all'Actor's Studio. Era seduta nella platea vuota, abbracciata a Miller»

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Frase a effetto che ha il suo mezzo fondo di verità facile da accettare se si rinuncia al luogo comune secondo il quale resta intatto quel che non si consuma. Ma questa è roba buona per un'altra storia. Qui si fondono sogni e verità, con una tenerezza tale che è difficile non sentirsela addosso. Quanti libri ha scritto Nantas? Nemmeno lui lo sa. Dice fra i trenta e i quaranta, come fanno le donne quando gli chiedi l'età. E questo è un vezzo, ma è anche un ulteriore omaggio alle donne che Nantas sa amare come pochi. Perché è un uomo, ma anche perché è abbastanza furbo. "Ho amato Marilyn". Che significa? «È un omaggio che le dovevo, m'è parso che fosse venuto il momento di dire alcune cose terribili sulla più celebre e fragile stella di Hollywood». Terribili in che senso? «Il caso, o la fortuna, ha fatto sì che incontrassi Marilyn il giorno dopo che era fuggita da Hollywood. Il regista era disperato, nessuno sapeva dove fosse, Oriana Fallaci scrisse un articolo divertente dove sosteneva che Marilyn non esisteva, era un'invenzione di celluloide». Come l'ha incontrata? «Ero andato con la mia amica Natalia Murray a vedere una commedia sperimentale all'Actor's Studio, il piccolo teatro off Broadway di Lee Strasberg. E lì, nella platea in penombra, vuota, scorgo l'inconfondibile capigliatura di Marilyn che stava abbracciata a un commediografo che conoscevo bene, Arthur Miller». La classica fuga d'amore? «Come la stessa Marilyn mi confessò qualche giorno dopo, nel modesto appartamento di Sutton Place che aveva affittato sotto falso nome, lei si era attaccata a Miller come una figlia al padre, come Elisa Dolittle al Pigmalione di G.B.Shaw». Non fu un matrimonio felice. «Fu un inganno, una caduta nella depressione. Il problema di Marilyn era che a Hollywood si sentiva snobbata, derisa, per la sua ignoranza. Aveva fatto la terza elementare e sognava di parlare un buon inglese, conoscere i poeti e gli autori, recitare Shakespeare. Questo le aveva promesso Miller; invece la divorò piano piano, come un verme divora dal di dentro uno splendido frutto». Mi racconti com'era vestita, l'effetto che suscitava. «Era combinata malissimo: una gonna grigia, un pullover verde smorto allacciato all'ultimo bottone del collo, e sotto un latteo, luminoso decolleté: fu un corto circuito da togliere il respiro». Pare che fosse sempre in ritardo. «A me ha fatto la grazia di apparire dopo appena un'ora e mezzo». E come s'è giustificata? «Sono desolata, ma non sapevo cosa mettermi». Ma le ha parlato dei suoi programmi, dei suoi desideri? «Ripeto: a trent'anni voleva ricominciare da capo. Lee Strasberg, che l'amava molto, voleva darle lezioni di teatro. E Miller le aveva promesso di portarla "nella terra dove fioriscono i limoni", in Italia, il paese dell'arte e della dolce vita». Lei non è l'unica protagonista del romanzo. «Lei è, per così dire, il diamante che illumina il centro della scena. Ma il romanzo-dal-vero è una sorta di "festa mobile" hemingwayana, l'esperienza di un vagabondo che conosce alcuni personaggi chiave del Novecento: da Marcel Carné a Michèle Morgan, da Eleonora Roosevelt a John Kennedy, da De Sica alla Magnani, da Ezra Pound a Prezzolini. C'è anche una breve poesia di Marilyn, che lei mi recitò». È morta a soli 35 anni. Dove l'ha saputo? «Ero a Milano, dirigevo «Panorama». Presi il primo aereo per Los Angeles e arrivai giusto a metà funerale. Fu uno strazio, tredici persone in tutto. Quella mattina capii che era finita la mia giovinezza. Io l'avevo molto amata. Poi sarebbe venuto il tempo della routine».

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