Catania: «Sono l'alter ego di Abatantuono»
Il talento, si sa, prima o poi viene riconosciuto. L'importante è perseverare nel conseguimento del proprio ideale, e non il conseguirlo. E Salvatores, dopo vent'anni d'impegno, prima in teatro e poi nel cinema, ha raggiunto la meta. Ma non da solo. Il suo è sempre stato un lavoro "di squadra". Infatti ha raggiunto il successo portandosi con sé i suoi compagni di viaggio, i suoi attori di allora, quelli del Teatro dell'Elfo. Il premio si è moltiplicato proprio nel suo essere condiviso. Nel suo riscattare Diego Abatantuono dal ruolo di attore comico in film di cassetta, restituendogli le sue capacità interpretative, occultate dalla caricatura di un sé stesso difficile da rinnegare e, ancor più, da estirpare, dalla memoria di massa. Nel suo credere in chi gli ha creduto e si è reso credibile agli occhi inclementi dei giurati seduti in platea... Per molti il binomio Salvatores-Abatantuono è inscindibile, ma c'è qualcuno che, in modo più discreto, ha condiviso con il regista, trent'anni di vita, artistica e privata. Il suo nome, Antonio Catania, a qualcuno sconosciuto, risorge dalla memoria collettiva, grazie ai personaggi da lui interpretati in film di successo indiscusso dal pubblico e dalla critica. Se dico «Pane e tulipani» chiunque ricorderà con simpatia Catania nel ruolo del marito della protagonista. Se dico «Ma che colpa abbiamo noi» tutti sorrideranno del suo personaggio e delle sue ansie. La stessa cosa vale per «Così è la vita», con Aldo, Giacomo e Giovanni. Commedie, ma non solo. Interprete della «trilogia» di Salvatores, «Mediterraneo», «Puerto Escondido» e «Sud», lo ritroviamo in «La Cena» di Ettore Scola e in «Segreti di stato» di Paolo Benvenuti. Attore dal curriculum di tutto rispetto (diplomato nel '75 alla Civica Scuola d'Arte Drammatica «Paolo Grassi» del Piccolo di Milano e cresciuto sul palco dell'Elfo con Salvatores), ha alle sue spalle trent'anni di carriera, ma «non se li sente». Il recitare è rimasto per lui un tavolo da gioco in cui confrontarsi per mettersi in discussione. Dopo tanti anni di esperienza e tanti ruoli interpretati, chiunque, a diritto, potrebbe ammettersi «attore» senza rischiare di essere messo in dubbio. Ma Catania non è capace di sentenze e «confermarsi è come rassegnarsi: non c'è più nulla da raggiungere, né da tentare. Preferisco mettermi in dubbio ogni volta per provare l'emozione di uscire da me per indossare il volto di un altro, riflesso nel mio specchio. Recitare è un eterno tentativo senza conferme obbligate». Da qualche tempo Catania è divenuto un volto familiare grazie alla fiction televisiva «Il giudice Mastrangelo» in cui interpreta Uelino, l'autista siciliano del protagonista, interpretato dall'amico Diego Abatantuomo. Che effetto le fa tornare sul set insieme a Diego? «Nessuno, nel senso che non abbiamo mai smesso di frequentarci. Recitare insieme non è che un prolungamento della nostra conversazione quotidiana». Come si sente ad indossare i suoi stessi panni di siciliano? «Mi piace il mio ruolo aldilà della sua identificazione anagrafica. È una sorta di poeta-filosofo che apprezza la vita nella sua semplicità e sa darle un senso. È l'alter-ego di Mastrangelo che, tornato nella sua terra dopo aver vissuto al nord, non riesce più ad integrarsi e a riconoscersi nella mentalità e nei ritmi del sud. Mi piace tornare ad essere siciliano "dentro", nell'anima della mia cultura fatta di profumi e di sapori inestirpabili». Ha appena terminato la lunga tournée teatrale, protagonista, accanto a Maria Amelia Monti, della pièce di Natalia Ginzburg, "Ti ho sposato per allegria". Il teatro rimane sempre il suo grande amore? «Indubbiamente il teatro è un grande banco di prova per un attore, però è molto faticoso e ripetitivo. Oggi prefer