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MARIO BERNARDI GUARDI CORPI.

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I mass-media ce ne offrono tutti i giorni in quantità straordinaria. La nostra vista ne è invasa. Carne, volti e dunque anche anime; facce ed emozioni. I corpi dei drogati: le modelle che sniffano coca, i cantanti che non riescono più a controllare i tic, i rampolli delle più illustri dinastie che precipitano nella notte dell'incoscienza. I corpi dei kamikaze e delle loro vittime: immense cataste sanguinanti, boia e vittime, «martiri» e martirizzati, umanità e disumanità, ferocia e disperazione. I corpi dei clandestini restituiti dal mare: il gelo che li inchioda in una fissità macabra, la nostra pietà che rapida scorre. I corpi dei salutisti, dei ginnasti, dei patiti del fitness, dei cultori delle arti marziali: riusciranno i nostri muscolosi e scattanti amici a «realizzarsi» nell'aurea massima «mens sana in corpore sano»? I corpi che gli anni fanno appassire e che la vanità riesuma dal decadimento: eccoli ricostruiti, rimodellati, eternamente belli: no, nessun patto col diavolo alla Dorian Gray, basta il denaro a garantire la giovinezza, anche se il «chirurgicamente corretto» alle prese con labbra, nasi, tette e chiappe, genera spesso rigonfiamenti alieni, «ultracorpi» e «ultravolti» più repellenti che affascinanti. Ci sono i corpi «imbalsamati» dalla passione politica, i volti che diventano icone: in libreria, saggi su Mussolini raccontano anche il suo corpo, la vitalità del capo carismatico, il mito virile, la salma offesa, violata, sconciata nella macelleria messicana di piazzale Loreto, per dirla con Ferruccio Parri, poi penosamente errante negli anni del dopoguerra, infine restituita ai suoi cari e alla nostalgia dei pellegrini «neri» nella Predappio «rossa»; nei cortei, sulle magliette, il volto di Che Guevara è emblema di un tardo romanticismo rivoluzionario e di nuovi furori noglobal, ma anche fortunatissimo gadget della globalizzazione mediatica. Icone. Non era una vivente immagine sacra il corpo di Giovanni Paolo II? Il male gli si accaniva addosso senza sosta e lui visibilmente lo combatteva da uomo che si ribella alla morte e lo accettava da santo padre vocato all' «imitatio Christi». Ci sono i corpi delle donne-oggetto: quelli che le onde d'urto del femminismo sciamannato e urlante avrebbero dovuto trascinar via, e che invece si sono moltiplicati in un delirio di veline, letterine, ereditiere, isolane, melisse del neo-lolitismo e del neo-ninfettismo: tranci di carne sempre più spudoratamente esibita per i coatti della libidine «voyaeur». E ci sono, non dimentichiamoli, i corpi aborriti e dunque abortiti, che sempre meno dovremmo fare oggetto di valutazione politica, parlandone quasi come merce di scambio, e sempre più, invece, di considerazione «umana», se non si vuole scomodare la dimensione religiosa. I corpi. L'esterno, l'interno. Il visibile, che ci attrae o ci ripugna. I sentimenti, le emozioni, le passioni. L'anima e il volto. Il corpo e lo spirito. Dialettica eterna. Come quella del nascere e del morire. Segnata dalla trasformazione costante. La metamorfosi. L'antichità la vede come emblema cosmico. Primordiale. In principio era il caos. Dal caos le forme. Dalle forme la metamorfosi. Che investe i corpi, li plasma, li riplasma. Sì, perché al centro c'è sempre il corpo. E al centro del corpo le passioni. Tutte. Le creative e le distruttive. Il mito - e cioè la storia prima della storia: se si vuole, la storia «esemplare», tessuta di archetipi, simboli, polivalenti significati - è storia di «passioni». Dunque, nuovamente, di «corpi» che amano, desiderano, odiano. Cambiano. Si trasformano. Tutti - dèi, eroi, uomini - sono coinvolti in questo processo, in questo destino di mutamento che è la legge dell'universo. Lo racconta Ovidio in un poema che è una sorta di enciclopedia del mito o, se si preferisce, di straordinario viaggio nel divino e nell'umano, intrecciati dall'eternità e per l'eternità: le «Metamorfosi». Quindici libri per raccontare l'universo. La Fondazione Lor

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