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La moto, una casa per spiriti «nomadi» Anche il Che e Brando centauri selvaggi

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La moto-mania ha contagiato Ewan McGregor, divo di «Guerre stellari» e di molti altri film che, con il suo amico Charley Boorman, attore anche lui e manager, ha mollato tutto per lanciarsi un un'impresa assurda quanto pericolosa: una corsa motociclistica da Londra a New York: trentamila chilometri da percorrere nel tempo che serve (alla fine ci vorranno quattro mesi) attraversando Ucraina, Kazakistan, Mongolia, Alaska, Canada... luoghi inospitali dove, se non stai attento (e anche se lo sei), puoi ritrovarti in mezzo al deserto con tutte e due le gambe rotte o più semplicemente a faccia in giù sull'asfalto con la testa fracassata, solo perché un teppistello ha deciso di fregarti la moto. Ewan, scozzese classe 1971, ha moglie e due belle bambine. Charley, più grande di cinque anni e figlio del celebre regista John Boorman, è anche lui sposato con prole. Eppure, insieme, decidono di realizzare l'impresa: un inferno solo per dire, alla fine: «L'ho fatto». Un viaggio compiuto nella primavera del 2004 costato sacrificio, fatica, programmazione oltre che, ovviamente, un bel mucchietto di soldi. Tutto documentato nel bel libro fresco di stampa «Long Way Round» («Il grande giro»), firmato appunto da McGregor e Boorman ed edito da Strade Blu Mondadori (321 pagine, 17 euro). Ma i due giovani (e visto il loro modo di pensare lo rimarranno per un bel pezzo) sono solo gli ultimi contagiati da un morbo che fa vittime, purtroppo non solo in senso allegorico. È il mito delle due ruote, il sogno di quella velocità sferragliante e intrisa d'olio con il vento nei capelli e la polvere tra i denti che prende il via, più o meno, tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta. Allora migliaia di Harley e tante altre moto prodotte per la guerra diventano residuati bellici. Mezzi da vendere a quattro soldi che mettono alla portata di tutti, o quasi, un oggetto affascinante e veloce. Ed è nel 1951 che il giovane Ernesto Guevara (allora aveva 23 anni e non era ancora il Che) inforca una sgangherata Norton 500 del 1939 e si lancia in un'odissea a due ruote per tutta l'America Latina. Un viaggio che è diventato un mito raccontato in due scritti: «Latinoamericana» di Ernesto Che Guevara e «Un gitano solitario» di Alberto Granado (il compagno di viaggio di Guevara). La storia nel 2004 è diventata un film di successo: «I diari della motocicletta», diretto da Walter Salles con Gael Garcia Bernal e Rodrigo De La Serna. Mentre il futuro «Che» andava su e giù per l'America del Sud, primo «Ulisse» rapito dalla «sirena» motocicletta, Marlon Brando quel mito lo raccoglieva e lo diffondeva per il mondo girando «Il selvaggio», storia di un giovane insofferente e disadattato a capo di una banda di centauri che scorrazzano per la polverosa infinita provincia statunitense. Da allora la leggenda è cresciuta ed è giunta fino a noi attraversando intatta le generazioni secondo l'incontestata equazione: moto uguale ribellione e libertà. Perché le due ruote, come mise bene in chiaro Dennis Hopper, regista nel '69 di «Easy Rider», non sono «un mezzo di trasporto, ma un "luna park"». Insomma si viaggia male, ma ci si diverte. Sì perché se è incontestabile l'equazione moto uguale libertà e altrettanto incontestabile che quella stessa moto è anche la negazione del mezzo di trasporto: se fa caldo si bolle, se fa freddo lo si prende tutto, se piove ci si bagna fino alla biancheria intima, se c'è neve o ghiaccio si va giù e non se ne parla più. Una realtà che non poteva sfuggire alla sferzante ironia del cinema italiano e che si concretizza nella macchietta di Ugo Tognazzi in «Il federale», del 1961, con l'esilarante viagg

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