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Intanto in Tv alterna per fiction il ruolo del prete a quello del contadino

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Oggi Terence Hill, al secolo Mario Girotti, il più famoso cow boy italiano, ha riconquistato il gradimento del pubblico tv indossando l'abito talare con il personaggio di «Don Matteo», nell'omonimo serial il cui quinto sequel arriverà su Raiuno il prossimo 26 gennaio. Nel frattempo, Hill che del Massachusset, negli Usa, dove ha trascorso circa trent'anni svela di aver nostalgia solo delle montagne e della bellezza della natura, si prende una «vacanza artistica» e si cala nel ruolo di un contadino calabrese nella fiction «L'uomo che sognava con le aquile», diretta da Vittorio Sindoni. La messa in onda è su Raiuno questa sera e domani sera. È l'occasione per ripercorrere, gli ultimi 20 anni della nostra storia che Hill evoca con attenzione ai mutamenti della società e dei costumi. La coppia Spencer-Hill è stata l'antesignana del binomio cinematografico Boldi-De Sica. Quali sono le analogie e le differenze tra le due unioni artistiche? «La separazione della nostra coppia è stata conseguenza della mutazione della società passata dalla gioiosa e ottimistica ingenuità degli anni '70 ed '80 all'attuale imperante cinismo del potere economico a cui la società internazionale è oramai prona. Noi eravamo l'emblema di una spensieratezza e di una fiducia nel saper coltivare l'io infantile, il fanciullino di pascoliana memoria che risiede in ogni essere umano, completamente fagocitate oggi dal materialismo e dalla omologazione in nome del benessere collettivo. La nostalgia per quei valori soffocati, ma non spenti, rappresenta la motivazione per cui ancora oggi le nostre pellicole continuano ad avere successo. La coppia Boldi-De Sica che pure ha all'attivo 23 pellicole, rispetto alle 14 girate da me e Bud Spencer, si separa per motivi più legati a fatti personali. Insieme però abbiamo rappresentato nella storia del cinema, importanti, anche se differenti, cicli di comicità». Vuole dire che è cambiata, in un ventennio, anche la maniera di fare comicità? «La nostra comicità affondava le radici nella tradizione, familiare un po' anche ingenua ma sempre buona, di Stanlio ed Ollio e prescindeva da qualsiasi forma di cinismo prerogativa oggi essenziale per la maggior parte dei comici». Vuol dire che la bontà è definitivamente tramontata anche nella maniera di far ridere? «Sembra sia diventato quasi imbarazzante pronunciare la parola "bontà" identificata con il facile buonismo al punto che la si sostituisce con inefficaci sinonimi quali migliorare la propria personalità». Eppure Don Matteo è un buono. In quale modo il personaggio del sacerdote ha inciso sul suo rapporto con la fede? «Ho sempre avuto con la fede e il soprannaturale un rapporto di grande serenità e di gioia. Vado a messa tutte le domeniche e se non posso, ci vado il lunedì mattina alle 7, in una dimensione più intimistica. Professionalmente, invece, Don Matteo mi ha consentito di mettere alla prova tutte le sfaccettature della recitazione, compresa l'avventura che ha caratterizzato i miei personaggi del passato». Esiste la possibilità di un ricongiungimento professionale con Bud Spencer? «Il mio amico e collega sta cercando una storia adatta alla nostre corde professionali, per il cinema o per la Tv». Crede, dunque, che esista una differenza nel raccontare storie per il piccolo o per il grande schermo? «La potenza mediatica della Tv è enormemente superiore. Una pellicola al cinema è di grande successo se è stata vista da 3-4 milioni di spettatori, cifre quasi irrilevanti se riferite a una fiction che ne conquista, se gradita, anche 7-8 milioni. In questo senso il messaggio di una storia è più facilmente veicolato. Personalmente non demonizzo la Tv, anzi, la seguo con attenzione e la utilizzo come mezzo di informazione». La fiction affronta anche lo scottante problema della difesa dell'ambiente? «È il punto cardine della storia che vuole trasmettere un fondamentale messaggio: non cancellare le impronte del passato: servono per migliorare la qualità della vita».

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