Dall'Ovra alla Milizia, la macchina repressiva della dittatura penetrava ogni strato sociale
Ovra (Opera Volontaria Repressione Antifascismo): la sua esistenza fu deliberatamente rilevata il 4 dicembre 1930 da un dispaccio dell'agenzia Stefani, in relazione a una retata contro il movimento clandestino «Giustizia e Libertà». L'esistenza di questo apparato - che si era celato per tre anni sotto lo stravagante nome di copertura di Anonima Vinicola Meridionale - suscitò negli italiani curiosità mista ad inquietudine. L'acronimo Ovra, per la sua assonanza con la parola «piovra», piacque molto a Mussolini (anche se è dubbio che fosse un parto della sua immaginazione): dava l'impressione di un organismo segreto tentacolare, ramificato, minaccioso. E tale era, in realtà, con quadri professionalmente qualificati e con non meno di dodicimila informatori, disseminati in tutte le categorie sociali. Quando, il 2 luglio 1946 (in piena «epurazione») sulla Gazzetta Ufficiale vennero pubblicati i nominativi dei confidenti dell'Ovra, accadde il finimondo: i ricorsi si contarono a centinaia. Anche dopo la «ripulitura», vi figurava Pitigrilli - al secolo Dino Segre - i cui libri spregiudicati e scollacciati (messi anche all'indice) si leggevano di nascosto, mentre è nota la «vexata quaestio» del ruolo avuto come informatore da Ignazio Silone. Il regime fascista disponeva di altri strumenti di difesa. La «normalizzazione» voluta da Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio 1925 e la nascita della dittatura, non poteva più indulgere allo squadrismo eccessivo, meno che mai alla Ceka - mutuata da quella sovietica ben più sbrigativa e feroce - di Amerigo Dumini, responsabile, con altri, del delitto Matteotti. A parte la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, guardia armata del regime, più di facciata che effettiva (come si vide il 25 luglio 1943: nessuno mosse un dito, dopo l'arresto di Mussolini, a cominciare dal comandante della MVSN, generale Ezio Galbiati), la polizia venne modellata secondo le esigenze di un regine dittatoriale. Arturo Bocchini, nato nel Beneventano, indiscusso capo della Polizia dal 1926 al 1940, impersonò alla perfezione la figura del «grand commiis» dello Stato in orbace. «Don Arturo», come veniva chiamato, conservò tuttavia sempre autonomia di giudizio, avendo sul serio il polso del Paese, fino al punto da dissentire totalmente dalla decisione di Mussolini di entrare in guerra. La storia gli riservò di non assistere alla caduta del regime e alla tragedia della nazione: morì infatti nel 1940, tra le braccia della giovane amante. Il successore, Carmine Senise, mal giudicato da Ciano, ebbe una parte importante per il successo del colpo di Stato che portò alla fine del fascismo. Nonostante le successive affermazioni in contrario, anche l'organo informativo con le stellette si piegò talvolta alle esigenze di ordine politico interno, per sostenere il regime. Di tutti i capi Servizio del SIM (Servizio Informazioni Militare), il generale Mario Roatta fu il più compromesso. Fa capo al colonnello Santo Emanuele la trama che portò alla eliminazione di Carlo e Nello Rosselli, esponenti antifascisti, combattenti in Spagna, uccisi nel 1937 per mano dei «Cagoulards», estremisti di destra francesi. Non a caso, successivamente, il Controspionaggio Militare e Servizi Speciali («e Sozzi Servizi», postillò qualcuno) sganciato dal SIM, venne affidato a Santo Emanuele. Ci volle del bello e del buono per sopprimere questa Sezione. E poi c'era il Tribunale Speciale, composto da soli ufficiali della Milizia, perché il regime volle tenere da parte, non coinvolgendola, la magistratura ordinaria. Dal 1927 alla caduta del fascismo, vennero pronunciate 4.569 condanne ed emanate 42 sentenze capitali, di cui 31 effettivamente eseguite. Sono dati, questi ultimi, che fanno riflettere. Perché la maggior parte delle esecuzioni avvennero durante la guerra, nei confronti di sloveni e croati. Non è nemmeno lontanamente paragonabile il numero delle esecuz