«Io come Wylder, scelsi il cinema perché è un lavoro meno faticoso»

Nato a Milano, laureato in medicina, Dino Risi ha voltato assai presto le spalle alle garze degli ospedali per le sete delle prime attrici. Fosse stato solo un po' vanesio, fotogenico com'è, avrebbe potuto scalzare dai cartelloni le icone di Amedeo Nazzari o Osvaldo Valenti. Lo si può immaginare in una commedia brillante, rivale di Albertazzi o di Vittorio Gassman. Invece il baronetto Risi (nobile suo malgrado) ha preferito collocarsi dietro la macchina da presa. «Se proprio debbo ballare - ha detto - preferisco condurre la danza che essere danzato». Impareggiabile conversatore, Dino Risi possiede la sferzante ironia alla Oscar Wilde e il sottotono (l'understatement) di un Evelyn Waugh. Per la sua avvenenza, e il tocco aristocratico, è stato corteggiato e chiacchierato nei salotti alti. Ma a questo presunto attivismo sessuale ha sempre opposto un sorridente diniego. A una cronista che lo assediava come una mosca, e pretendeva nomi e cognomi di prede famose, il regista fece un'alzata di spalle: «Ma lei è fuori strada, cara signora: Conosco ragionieri e geometri al catasto, che hanno avuto molte più donne di me». Risi ha diretto un numero cospicuo di film, alcuni mediocri e altri di buon livello. Ma se andate in qualche università americana, dalla Columbia di New York alla Berkeley di San Francisco, dove si studia l'arte del cinema, scoprirete che tra i capolavori sotto esame ci sono almeno due film suoi: «Il sorpasso» e «I mostri». Chi legga i copioni e i dialoghi dei migliori film di Risi s'accorge che non nascono da una cultura provinciale. A differenza di certi malloppi degli anni Settanta, con il messaggio gridato senza il contrappeso dell'ironia, Dino Risi si è limitato a raccontare delle storie, esattamente come fecero Balzac e Zola: è dalla vita dei personaggi, dai loro spasimi o dai loro silenzi, che lo spettatore ricava il senso dell'opera. La bellezza non è uno splash da copertina, ma si cela nei dettagli, è «il trillo di un usignolo nel primo chiarore dell'alba». Se si dovesse cercare un "compagno di strada" per Dino Risi, tra i nomi che verrebbero subito in mente c'è Billy Wilder, il regista di «Asso nella manica», «Viale del tramonto», «A qualcuno piace caldo». Il Wilder viennese e il Risi milanese hanno in comune la leggerezza del tocco, e l'autoironia. Quando andai a trovarlo nel suo ufficetto di Los Angeles, dove lavorava allegramente sulla soglia dei novant'anni, Wilder mi raccontò che aveva fatto il regista perché «non gli imponeva orari fissi e un autista lo andava a prendere in Rolls-Royce». Alla stessa domanda Risi mi ha risposto: «Perché ho fatto cinema? Si guadagna un po' di più e si fatica molto meno che alla catena di montaggio». Proprio nel giorno del suo compleanno ho fatto una lunga chiacchierata con lui. E fin dalle prime battute mi sono accorto che la sua conversazione non ha perso brillantezza né spessore. «Lei ha scritto degli eccellenti copioni e un buon libro» gli ho detto. «Come mai ha preferito raccontare con la macchina da presa invece che con la stilografica?» «Ma mio caro - è stata la risposta - Se debbo descrivere un albero sulla pagina, devo faticare nella ricerca di stilemi nuovi. Ma con il cinema non c'è problema: trovi l'albero giusto, e lo inquadri nella giusta luce. Ed è fatta». Risi ha diretto i più grandi attori, da Gassman a Manfredi, ma è ben contento di non avere scelto la loro carriera. «Vede - m'ha detto - un regista può invecchiare in pace con se stesso, non ha l'incubo di una nuova ruga o di una perdita parziale della memoria. Sono persuaso che Gassman è entrato in depressione perché dimenticava le battute, lui che aveva avuto una memoria di ferro e poteva recitare centinaia di commedie a occhi chiusi... Ricordo una delle ultime volte che abbiamo fatto una cosa insieme. Niente di speciale, era solo uno spot pubblicitario. Ebbene, doveva dire una frase di poche parole,