Gere e Binoche fanno più belle le parole d'amore
Il titolo originale era «Bee Seanson» (La stagione delle api), come il romanzo di Myla Goldberg da cui hanno tratto il loro film i due noti registri del noir «I segreti del lago», Scott McGehee e David Siegel. Il romanzo era metà filosofico e metà misticheggiante, arrivando comunque a comporre un ritratto spesso riarso di una famiglia media americana, padre, madre, un figlio e una figlia, che dopo un'apparente quiete, iniziando a disgregarsi: con una soluzione pacificatrice solo all'ultimo momento. I due registi, valendosi di una sceneggiatura molto più essenziale e stringata di Naomi Foner, che aveva scritto a suo tempo con successo quella di «Vivere in fuga» di Sidney Lumet, ci hanno soprattutto messo di fronte a dei rapporti familiari dominati da un padre, cultore di religione ebraica, presto in disaccordo con il figlio e la moglie per essersi esclusivamente dedicato all'educazione della figlia, una bambina capace di vincere molti di quei campionati tutti americani che consistono nel saper compitare una parola lettera per lettera (in inglese lo "spelling"). Non è tanto lo spirito agonistico a guidare il padre, ma il fatto che, studioso appassionato della Cabala, pensa di poter arrivare a Dio tramite le parole. Lui, con la sua religiosità, l'ha tentato senza riuscirci, adesso è ansioso di vedervi riuscire la bambina al posto suo. Nel frattempo, però la moglie soggiace a una pericolosa depressione e il figlio, per rivalsa, abbandona l'ebraismo per l'induismo, salmodiando in un tempio vicino a casa vestito d'arancione. Sarà la bambina, alla fine, a ricomporre tutto. Rispetto al romanzo, appunto, la struttura del nuovo racconto pensato per il cinema è sfrondata da molti elementi e figure di contorno, pur senza evitare qua un sospetto di retorica e là degli accenti di un sentimentalismo un po' facile, però i modi di rappresentazione non faticano a convincere. Per la forza psicologica di tutti e quattro i personaggi, per le tensioni sempre piuttosto calibrate dei reciproci rapporti, e per un linguaggio che tende spesso ad affidarsi ad immagini lineari e nitide, vivificate da composizioni figurative molto attente. Il merito maggiore del film, però, com'è facile intuire, risiede soprattutto nella recitazione, perché Richard Gere, come padre ossessionato da problemi spirituali, riesce a creare un carattere di saldissima evidenza e così al suo fianco, nelle crisi della moglie, la francese Juliette Binoche, per nulla spaesata da Hollywood. La bambina è un'esordiente, si chiama Flora Cross, potremo sentirne riparlare.