Cina, un impero senza aquiloni
Oggi sta per compierne cinquanta e pure essendo considerato uno dei maggiori poeti della generazione di mezzo è un uomo deluso quando constata che «in questa Cina non volano più gli aquiloni». Un paese dove quanto meno nelle grandi città il cielo non è più azzurro, ma di un grigio sporco, dato che paga il prezzo del proprio successo guadagnandosi il primato di essere uno dei maggiori produttori mondiali di gas serra (ma come Paese in via di sviluppo esente dall'obbligo di ridurre le emissioni di CO2 come previsto dal trattato di Kyoto); dove il traffico automobilistico ha raggiunto e superato i limiti della follia (e fra dieci anni saranno 300 milioni le auto private), piazze, giardini e vecchi quartieri vengono sventrati per far posto a dei palazzi avveniristici. Una Cina fatta di megalopoli che si dilatano di continuo, e non c'è più posto per far volare gli aquiloni, ascoltare il canto dei grilli, meditare sui piaceri o sui dolori dell'esistenza sulle rive di un laghetto dalle acque limpide. È comunque nel nome di una vecchia amicizia che Xiao Ting ha accettato di accompagnarmi in questo viaggio nella Cina di un libero mercato nel quadro del partito unico; una guida utilissima dato che possiede le "conoscenze" adatte per aprire delle porte che altrimenti per me resterebbero chiuse. È grazie a lui che mi è stato possibile incontrare a Shangai uno dei "principini", esemplare tipico della nuova Cina, Jiang Mianheng, figlio dell'ex presidente cinese , Jiang Zemin, e nel presente fra i soci di maggioranza della Grace Semiconductor, che produce microchip per computer nel parco tecnologico di Zhangjang, a metà strada fra Shangai e l'aeroporto di Pudong. Rigidamente in Armani dress, Rolex d'oro al polso (e come dicono di lui, un grande collezionista d'arte) mi spiega le caratteristiche vincenti dell'azienda, un capitale di 1.6 miliardi di dollari, un imbattibile rapporto qualità-prezzi, a breve la quotazione alla Borsa di New York. Sede sociale della società le isole Caimane, un paradiso fiscale. E come socio "esterno" un certo Winston Wang, figlio del più grande tycoon dell'odiata - a parole - Taiwan. Che importa? Questa è la Cina! Il paese dove il denaro, purchè si faccia, non ha odore. Hangzhou, sul delta dello Yangtze (quel fiume "lungo" sconvolto da una diga ciclopica che fornirà energia e risorse idriche alle piane aride del Nord, al prezzo di interi villaggi sepolti dalle acque, con loro dei templi secolari, e una incredibile massa di contadini deportati altrove) era un tempo un felice, sereno, delizioso, piccolo centro turistico, dove ci passò anche Marco Polo, lo ricorda una statua che troneggia in città. E adesso? Tutto è cambiato, ci arriva una rete di autostrade a otto corsie, fra poco un treno ad alta velocità, a ridosso dei laghetti che ne facevano una Venezia cinese è cresciuta una città di sette milioni di abitanti dove si produce la maglieria che invade i nostri mercati, a prezzi assolutamente competitivi, perché qui un operaio tessile guadagna dai 45 euro, il minimo garantito, al mese, fino a 300 euro se accetta di raddoppiare i turni di lavoro. E se in pochi anni, così facendo, il suo fisico si usura, non è un problema, dato che di manodopera in cerca di lavoro in Cina ce n'è in abbondanza. La prova? Una corsa alla stazione ferroviaria centrale, dove pare di cadere in una corte dei miracoli, migliaia di persone, uomini e donne, ammassati gli uni accanto agli altri, facce disperate, corpi segnati dalla fame. Un rivolo di quei 100, forse 200 milioni di contadini di cui la terra non ha più bisogno e che vagano da un capo all'altro di questo immenso paese alla ricerca di un lavoro qualsiasi, che gli garantisca, quanto meno, una ciotola di riso al giorno. E quasi ad irridere alla loro miseria, una stazione costellata di cartelloni pubblicitari che recl