Sceneggiature e regie cinematografiche nel segno di un elegante formalismo
Tra la fine dei Cinquanta, però, e gli inizi dei Settanta, cominciò, nella sua attività, a trovare spazi anche per il rivale del suo teatro, a tavolino, comunque, scrivendo delle sceneggiature con lo stesso spirito con cui scriveva i suoi acclamati testi teatrali. Sceneggiature importanti, per film firmati da registri di fama «I magliari», ad esempio, per la regia di Franco Rosi, «Lettere di una novizia», dal romanzo di Piovene, per la regia di Alberto Lattuada, «La ragazza con la valigia», per la regia di Valerio Zurlini. Poi una sera una telefonata «Ho deciso, basta soltanto scrivere, farò anch'io delle regie per il cinema». Era «Il Mare», con Umberto Orsini, Francoise Prevost e Dino Mele, quest'ultimo un ragazzetto di Capri conteso dai primi due. Un tema, per allora, piuttosto scabroso, risolto però da Peppino con dei modi che indussero alcuni a citare Antonioni. Andò avanti, non solo perché qualche anno dopo Rossellini gli aveva portato al cinema con successo «Anima nera», una sua commedia, ma perché di un'altra sua commedia, «Metti una sera a cena», erano stati in molti a consigliarli di ridurla lui stesso per il cinema. Fu un successo: non solo per quelle battute rimaste memorabili «il matrimonio si regola sull'infelicità di uno dei coniugi, nel migliore dei casi su quella di tutti e due», ma perché il « ménage à trois» al centro, grazie a tre interpreti vigorosi, Jean-Louis Trintignant, Florinda Bomkan, Lino Capolicchio, acquistava al cinema delle sfumature in un intellettualismo acceso pronto a convincere con preziosi formalismi. Gli stessi formalismi - segno preciso di quasi tutto il cinema che Peppino faceva - si sarebbero ritrovati di lì a poco nella riduzione di un dramma del celebre elisabettiano John Ford che si intitolava «Peccato che sia una sgualdrina» e che Peppino, sullo schermo, aveva molto più poeticamente intitolato «Addio fratello crudele». La protagonista, lì, era una stupenda Charlotte Rampling, nel film seguente, «Identikit», da un romanzo Muriel Spark riscritto da La Capria, doveva essere addirittura Elizabeth Taylor, votata ad una magistrale autodistruzione, con nera smania di morte. Più in là ho ritrovato Peppino dietro a una macchina da presa quando, a metà dei Settanta, si accinse a ridurre «La divina fanciulla » di Zuccoli intitolandola «La divina creatura», e dieci anni dopo quando dette vita a quel gioco claustrofobico al massacro che fu «La gabbia», con Tony Musante e Laura Antonelli. Poi, salutandolo solo da lontano, perché era in televisione («La Romana» da Moravia), l'ho festeggiato insieme a tanti amici quando - lui sempre così «giovane» - compì ottant'anni. Mi disse: «Ci rivediamo per i novanta!» La sola promessa che non ha mantenuto.