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di STEFANO MANNUCCI «VIDI Fabrizio un mese prima che morisse, e fu l'ultima volta.

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Io so di essere un grande poeta, e voglio che il mio nome resti per questo. Se ti capiterà di parlare di me, tieni a mente queste parole». Gli è capitato, a Villaggio. Adesso. Inevitabilmente, la sua maschera burbera lotta con l'esigenza di una lacrima, come quel giorno con De André. «Fu un momento di commozione assoluta. Io gli dissi che sì, diamine, certo che era un grande poeta. E poi tentammo di scherzare, ma non ci riuscimmo. Quello fu il suo testamento». L'attore non andò mai, nelle settimane che seguirono, a trovare l'amico di sempre in ospedale. «Non volevo vederlo spegnersi pian piano, lui che già rifiutava la morfina per paura di non svegliarsi più», ricorda. Con De André che passava le notti estreme abbracciato a Dori, pregandola di non farlo addormentare. «Non temeva la morte, il nulla che per noi non credenti è dall'altra parte», ricorda Villaggio. «De André non sopportava l'arrivo di quel momento ineluttabile in cui capisci che stai per dire addio al dono più straordinario di cui possa godere l'uomo: la vita». Quella che Paolo e Fabrizio avevano speso insieme, sin da ragazzini, quando andavano davanti all'hotel Principe, alle prime luci dell'alba, a svegliare gli ospiti urlando: "Tutti fuori per il sorteggio", e in quella burla feroce c'era già la cifra, lo stile di quelle due anime salve. Che - come racconta il titolo della nuova antologia discografica di De André - hanno sempre vissuto "in direzione ostinata e contraria". Componendo canzoni insieme, e celebre è la satira, già allora contrastata del "Carlo Martello che torna dalla battaglia di Poitiers". E inventando spettacolini tra folk e cabaret sulle navi della Costa Crociere, dove «c'era un giovane Berlusconi che cantava in modo straordinario, e suonava il piano, e capivi che avrebbe fatto una sua strada», ride Villaggio. «Faber era uno straordinario cialtrone, un ragazzo divertente. Poi, che vuole? Il pubblico gli cucì addosso la maschera dell'uomo malinconico, del genio ombroso. Ma questo è un Paese ingeneroso, non lascia spazio agli artisti che invecchiano. Lui però ebbe l'accortezza di morire ancora giovane. E la sua scomparsa lo rese grande, agli occhi di tutti, in maniera insperata». Su De André, Villaggio ha scritto ben due capitoli del suo libro "Vita morte e miracoli di un pezzo di merda". «In quelle pagine credo di aver detto la verità a proposito di lui. Anzi no, non l'ho detta. Quella non la si può intuire». Né certo rivelare così, su due piedi. Ma chiedete a Villaggio cosa ne pensi di quell'ipotizzato tentativo di suicidio di Faber, nei quattro mesi del sequestro legato a un albero dell'"hotel Supramonte". Incappucciato insieme a Dori, aveva nascosto una scatoletta di tonno aperta, e con il coperchio avrebbe voluto tagliarsi le vene. «Cazzate, anche se fu lui stesso a raccontarlo», sentenzia Paolo. Però, però. In tre, fra i "poeti" genovesi, avevano flirtato con l'idea di farla finita. «Sì - ammette Villaggio - ma Paoli si era sparato con una rivoltella che sputava proiettili poco più grandi di uno spillo. Fabrizio, niente. Tenco, ecco lui sì». E la riesumazione della salma, secondo l'attore, «gioverà solo alle case discografiche, alla riscoperta delle bellissime canzoni di Luigi, che è dimenticato da quasi 40 anni. Ma non farà scoprire altre verità su quel colpo in testa». Sì, qualcuno oggi descrive di nuovo il cantautore di "Ciao amore ciao" come un uomo bizzoso, geloso, chiuso in se stesso. «Baggianate. Erano tutti possessivi, a quell'epoca». Con Gino Paoli si rubavano le donne a vicenda. «Ma quelle irraggiungibili erano quelle più ambite. E Dalida era pur sempre una donna sposata». Al massimo, Tenco era uno «impulsivo, uno dei quartieri bassi, non filtrava tutto con la cultura altoborghese di De André». Il "padre" di Fantozzi concede una mezza smorfia ricordando una colazione a tre, millenni fa. «A casa di Luigi, in una frazione di Camogli. Lui era già famoso, io e Fabrizio lo guardavamo con

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