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Oltre Dan Brown il «Delirio» e l'allegra malinconia di Pennac

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In questo viaggio attorno al mondo partiamo dall'America Latina, uno spazio enorme che oggi appare in leggera crisi, dopo la grande ondanta dei Garcia Marquez, Vergas Llosa, José Donoso. Manuel Scorza, e tanti, davvero tanti altri narratori del fantastico e dell'irreale. Oggi, la narrativa del Sud America restringe il proprio obiettivo verso condizioni esistenziali singole e individuali, e in questa direzione abbiamo scelto una scrittrice colombiana di Bogotà poco più che cinquantenne, Laura Restrepo, donna che vive anche la difficile esperienza politica del suo paese come membro della commissione per i negoziati di pace fra il governo e i guerriglieri di M-19. ora è nelle nostre librerie con «Delirio» (Feltrinelli, 254 pagine, 15,00 euro), la storia di una bellissima fanciulla ribelle, Agustina, figlia di un latifondista colombiano, sensuale maga hippy, alle prese con un ex professore universitario un po' fuori di testa che contribuisce non poco al «delirio» della protagonista, sul quale si sviluppa l'intera vicenda, con continui ricambi tra il fantastico e il reale. Dal remoto continente latino americano a Israele, il viaggio è lungo ma una certa analogia di situazioni e di condizioni umane emerge, e di un tale stato uno scrittore come Amos Oz è sicuro testimone: questa lucidità verso gli uomini e la condizione del suo popolo, riesce a trasferire sulla pagina, senza tuttavia venir meno alle regole ineluttabili dell'invenzione: «D'un tratto nel folto del bosco» (Feltrinelli, 114 pagine, 10 euro) è un romanzo di atmosfere, quella buia di un bosco disabitato perfino dagli animali: è successo qualcosa di irreparabile in quella terra, o per lo meno tale è la percezione, lo sappiamo, e la vicenda si snoda in questo clima sospeso, a metà strada fra la temperie stregata dentro cui si muovono gli smarriti personaggi, e gli slanci verso un fantastico liberatorio. Un testo di grande fascino insomma. Restiamo in quelle zone, anche se a qualche bel numero di chilometri di distanza, e andiamo in Albania, dal più grande scrittore di quel paese Ismail Kadaré che esce ora in Italia con il suo nuovo romanzo dal titolo suggestivo: «Freddi fiori d'aprile» (Longanesi, 183 pagine, 14,00 euro): è la vicenda di un pittore, Mark, che in un villaggio albanese spento dalle nebbie accanto al braciere kosovaro, dipinge la sua giovane e amata modella. Fosse tutto qui, non si darebbe il suo ad un narratore capriccioso come Kadaré: tutto si complica e il romanzo assume le cadenze di un misterioso giallo che avvince il lettore fino all'ultima pagina. E aggiungiamo pure che proprio in questi giorni Kadaré ha pubblicato, in lingua albanese (di solito scrive in francese, vive a Parigi), un libro sul nostro maggior poeta, «Dante inevitabile», che già incuriosisce per il titolo, e vuol essere un tentativo estremo di confronto e di incontro fra Occidente e universo islamico. Che l'Alighieri faccia il miracolo? Ed eccoci a suggerire il terzo volume della trilogia di Agota Kristof, ungherese di nascita, svizzera di adozione, grande scrittrice che sconta di continuo sulla pagina la tragedia — le tragedie — del suo paese: ora è di nuovo in libreria da noi con l'ultimo volume di una tormentata trilogia, che viene edita nella nostra lingua nella sua interessa, e comprende i romanzi «Il grande quaderno», «La prova» e «La terza menzogna», sotto il titolo generale «Trilogia della città di K.»: sono vicende drammatiche consumate in una terra martoriata e ferita, in cui gli interni domestici diventano luoghi d'inferno, di dolore e di pena, con figli deprivati dei

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