Brian Jones, film rilancia la tesi dell'omicidio
All'inizio era lui il leader del gruppo, anche perché fra quei ragazzi appassionati del sound di Chicago quello che aveva conficcato più profondamente il senso del blues era proprio lui, Brian Jones, che gli altri Stones conobbero quando al «Crawdaddy» di Richmond, periferia londinese, si faceva chiamare Elmo Lewis. La "success story" di Brian Jones è nota: strumentalmente il più dotato dei cinque, Jones si batteva per un progressivo avanzamento del sound di gruppo, senza perdere mai di vista la concezione del blues. Entrò ben presto in rotta di collisione con Mick Jagger, che di fatto divenne il leader della formazione, ma i suoi guai si estesero anche alla sfera privata: Keith Richards gli soffiò la fidanzata, Anita Pallenberg, e allo stato di preoccupante tossicomania si aggiunse una paurosa depressione. Fra arresti, detenzioni e irruzioni gli Stones nel 1968 rischiavano di non poter più effettuare tour. Quello maggiormente colpito, anche caratterialmente, fu proprio Jones, che infatti l'anno dopo venne estromesso dal gruppo. Il gesto venne giustificato come una risoluzione consensuale, ma la prevaricazione era evidente: gli Stones senza Brian Jones perdevano, ma con lui non potevano andare in tour. Il 3 luglio del 1969 il suo corpo venne ritrovato senza vita nella piscina della sua villa ad Hartfield, nel Sussex. Aveva 26 anni. Da allora è stato un lungo susseguirsi di congetture, ipotesi, ricostruzioni più o meno fantasiose che nulla hanno aggiunto ad una morte che, al di là dei dati firmati dal coroner, rimane assai misteriosa. Che cosa c'è dietro al suo mito? Come riuscì a fare così tanto e rapidamente? A tutte queste domande hanno cercato di rispondere fino ad oggi una dozzina di libri che hanno ricostruito, giorno per giorno, la vita di un talentoso chitarrista blues fino ai tragici eventi che lo trasformarono in uno dei culti della leggenda del rock. Ora è la volta di un film, «Stoned» (come uno dei primi brani del gruppo, quasi del tutto strumentale), diretto da Stephen Wooley con Leo Gregory nei panni del chitarrista. La pellicola, in programmazione in Inghilterra, è stata accolta molto favorevolmente dalla critica. «Un film sulla morale del rock più che sulla musica - ha scritto Damon Wise sul mensile «Q» - con Leo Gregory sorprendentemente persuasivo in un ruolo che sarebbe stato difficile per chiunque». Già, ma di quale morale rock si parla, visto che ancora oggi, come testimoniano certi eroi negativi della musica giovane, l'accoppiata rock-nefandezze continua a creare proseliti anche fra le nuove generazioni? Rimane l'onestà di un film non mitologico, non illusionistico, poco propenso ad incensare gli anni Sessanta, che del resto erano già al tramonto. La morte di Brian Jones può ritenersi molto più misteriosa rispetto a quelle, comunque altrettanto tragiche, di Elvis Presley, Jimi Hendrix o Janis Joplin. L'unico comune denominatore è nell'uso sconsiderato di droghe. Ma non può bastare. È nelle pieghe e nella schizoide personalità di Jones che si devono cercare nuovi elementi di interpretazione. Non a caso il ruolo più indovinato sembra essere quello dell'ottimo Paddy Considine, nei panni di Frank Thorogood, factotum e responsabile dei lavori di ristrutturazione della villa, da molti storici ritenuto il vero assassino del musicista.