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Non c'è limite all'avidità dei potenti

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Derivazione di Gengis Khan, l'ambizioso Signore dei Mongoli che realizzò il suo fine: creare il più vasto impero che la storia conosca. «Il Gengis» è il titolo della nuova avventura letteraria di Alberto Bevilacqua, in uscita in questi giorni, edita da Einaudi. Un rischio? In questo caso il rischio è evinto dall'autorevolezza dell'autore che di certo «garantirà» l'aim commerciale previsto dalla Casa Madre Editrice. Chissà la Mondadori come l'avrà presa... Si sentirà tradita dal suo scrittore prediletto? Non lo sapremo mai. E non ci interessa. Anche questo fa parte del gioco dei potenti di cui, con sapiente ironia, racconta Bevilacqua nel suo romanzo. La copertina parla da sé: un diavoletto rosso furbescamente disegnato dal grande Jacovitti, (che fu grande amico dell'autore) ci introduce con maliziosa astuzia alla chiave di lettura del romanzo. Quasi un Caronte in versione cartoonistica sulla sponda dell'Ade, che non è più al confine della Vita, ma che la attraversa tra i canali arteriosi di un grottesco, quanto veritiero «peuple en masque» veneziano. «Il Gengis» è un potente di oggi, un uomo che possiede tutto e che non si accontenta del tutto. Vuole di più. La sua è una sfida con Dio e con tutti gli Dei alternativi. Crede in Dio per credere in sé stesso. Il suo altare è il volto riflesso nel suo specchio. I suoi nemici sono il suo cibo quotidiano. Pecorelle da addomesticare con paziente e subdola adulazione come solo una mente diabolicamente divina sa fare. La sua preda più ambita è Tommaso, un fumettista e vignettista satirico, ultimo rappresentante della sua specie ormai estinta di «buffoni», o meglio, per dirla con Shakespeare o con Beckett, di «fool», creature portatrici di verità, narratori e accusatori a cui tutto è permesso in nome dell'Ironia di cui sono i soli detentori. Ridere delle nefandezze umane non è impresa facile soprattutto se ne sei partecipe o, ancor peggio, artefice. Ma i nostri antichi progenitori ci hanno insegnato a sdrammatizzare la tragedia umana trasferendola sul palcoscenico della Comoedia. E ha funzionato. Ma il Gengis non possiede il dono dell'Ironia e Tommaso è la sua coscienza sporca da eliminare per liberarsi dagli aloni dei sensi di colpa rimasti appuntati sul suo volto in copertina. Tommaso è il suo chiodo fisso da inchiodare alla croce del suo narcisismo. Per farlo tenta ogni strada: l'amicizia, la complicità, la generosità, l'ammirazione. Lo rende suo suddito, con l'arte del Mecenate che sceglie il "prescelto" per le sue doti superbe per poi farne il suo schiavo "prediletto". Lo innalza alle stelle per poi, da bravo politico, gettarlo nel fango per le colpe commesse che egli stesso gli ha commissionato. Ma non solo. La sua spada assetata di sangue non è ancora saziata. Manca qualcosa alla riuscita dell'opera. I sentimenti. Deve privarlo dell'amore di chi gli sta accanto. Seduce la moglie Pupe con la forza del potere e del denaro e ne fa la sua compagna da esporre ai comizi dalla sua finestra di Duce. Gli strappa via Duccio, il figlio adottivo e adottato da Tommaso, bambino sensibile e intelligente, difficile da "comprare", ma che il Gengis riesce a plagiare. Depredato di tutto, Tommaso si rassegna, ma non per molto. Grazie a due donne, amiche e complici, la madre Moretta (riferimento chiaro a Lisetta, madre dell'autore) e all'amica Lila, attrice fallita per non aver ceduto alle lusinghe del Gengis, ha inizio la sua "revence". Sarà proprio grazie all'ironia, o piuttosto al sarcasmo, suo lato funesto, che Tommaso riuscirà a trionfare sul «Gengis Càn». Alla domanda lecita, scaturita da innocenti (quanto?) riferimenti a fatti e persone realmente "esistenti", Bevilacqua risponde con ironica diplomazia: «Credo che sia facile e banale riconoscere uno o più volti che ci sono ormai familiari nel Gengis. Più arduo riconoscersi in Tommaso, nella sua ironia spietata quanto infrangibile a ogni sopruso o compromesso».

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