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L'epistolario fra un D'Annunzio in declino e una giovane signora vogliosa di emozioni forti

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E siccome l'Italia tra i suoi misteri è fatta anche di piccoli, eleganti stampatori, Salerno Editrice pubblica ora le lettere del vate alla padovana Antonietta "Nietta" Cassinari, a cura del quasi omonimo e valente studioso Vito Salierno. E' d'uso ritenere che D'Annunzio, "negli anni del tramonto" (1926-1937) al centro di questa corrispondenza, fosse politicamente, artisticamente e umanamente finito, ridotto ad automa e caricatura, prosciugato dal dispendio di sé. Le opere dell'ultimo periodo, compresa la più moderna e originale, il Libro segreto, sono in gran parte riprese dalla fucina degli anni d'oro, per non parlare delle lettere che, come ricorda il curatore, erano spesso ricopiate a piè pari e rispedite a più destinatari. Ma questo aspetto di Gabriele, come tutto (o quasi) ciò che lo riguarda, non sorprende né offende. Anzi: attesta sino all'ultimo il suo impegno, la sua operosità, il desiderio di ricorrere anche agli scarti pur di non rinunciare a quel programma di vivere per scrivere e scrivere per vivere che si era imposto fin da ragazzo, con ambizione demoniaca ma anche con umiltà e disciplina esemplari. Perché D'Annunzio, piaccia o non piaccia, fu un eccezionale professionista, un artigiano del Rinascimento trapiantato nel secolo per lui forse sbagliato, un grande sedere di pietra abruzzese a lungo (finché resse) correttore e non corruttore del suo talento. Il contrario, insomma, del cliché facilone e ciarlone che gli è stato cucito addosso. Un critico inglese ci confessava: "A me non sembra italiano. E' troppo freddo e cattivo..." E invece era italiano eccome. Ma per l'appunto non l'italiano mammista e mandolinista, prediletto oltralpe e oltre oceano. Il superomismo dannunziano sta tutta qui, contro qualsiasi ideologia progressista o di riscatto del "popolo", che anzi più era arretrato più serviva i suoi sogni feudali e antiborghesi. Ecco perché il suo vero continuatore ci sembra Pasolini, come abbiamo scritto su queste colonne, e l'odio di costui verso il predecessore nato dal classico rigetto del padre. Ma Pasolini riuscì ad annientarsi (malgrado le teorie complottistiche che da noi non mancano mai) prima di affrontare, come Gabriele, "l'oscena vecchiezza". Anche queste lettere, in sé modesta cosa, brillano della luce riflessa del vate, del suo servirsi di tutto e tutti per servire la sua arte, che era sì la sua vita, ma soprattutto il suo piacere. L'opera è tanto più riuscita quanto più frigido è il suo artefice, un uomo che non amava affatto, e certo non le donne che gli si offrivano. Bene ha dunque fatto la coppia Salierno-Salerno a recuperarle da un collezionista ticinese e a pubblicarle con agile ma completo apparato di note (ci permettiamo solo di rilevare un "non meglio identificato" architetto di Roma, che era Armando Brasini, autore fra l'altro del primo piano regolatore di Tirana). La Cassinari era una provinciale trentenne vogliosa di sensazioni forti: "puledra", "giumenta", o piuttosto oca al punto giusto di cottura. Una di quelle Madame Bovary dell'allora già opulento nord est che avevano sostituito le aristocratiche, cosmopolite muse d'un tempo nel talamo declinante del poeta. Più che di lussuose antichità sapeva di piastrelle e mobilifici e l'origine del contatto fu proprio quella: il marito antiquario della Cassinari offrì al poeta una statua lignea di Vergine veneziana. Ma la vergine (per così dire) che finì col rifilargli fu la moglie. E il poeta se ne cibò estasiato: "Le tue carezze avevano fatto insonni torrenti delle mie vene caste!", le scrisse dopo il primo degli ingordi amplessi che li unirono. Mentiva, naturalmente. In quella tarda fase, Gabriele non dipendeva dalle donne ma dalla droga con cui cercava di rinvigorire il fedele ma stanco "principino". Era il relitto del grand'uomo che fu, "postero di se medesimo". Fuor di metafora, era pieno di grane, come un borghesuccio qualsi

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