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PRIMA VISIONE

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Eros «nero» nel college che John Irving ha preso da Lattuada

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Il regista è l'inglese John Irvin, la sceneggiatura, che rileggeva con molte varianti il notissimo romanzo breve di Frank Wedekind, «Mine Haha, ovvero l'educazione fisica delle fanciulle», l'aveva scritta, insieme con Ottavio Jemma, il nostro caro e compianto Alberto Lattuada, senza possibilità di poterla personalmente realizzare a causa di quella lunga infermità che preparava la sua fine. John Irvin che, come si ricorderà, si era già cimentato con liriche rievocazioni d'epoca in «Un mese al lago», degli anni Trenta in Italia reinterpretati da Vittorio Gassman e da Vanessa Redgrave, anche qui, in una cornice austro-ungarica primo Novecento, sembra indulgere all'idillio: in un orfanotrofio di lusso dove le orfanelle, via via che crescono, vengono educate alla danza e alle buone maniere privilegiando, su tutto, il loro fisico e il suo sviluppo. Poi, procedendo, svela retroscena terribili, arrivando a fare intendere - abbastanza in linea con il testo di Lattuada, ma andando ben oltre il romanzo di Wedekind, solo allusivo, enigmatico, quasi metaforico - che la sorte ultima di quelle fanciulle sono dei letti dove le attendono uomini altolocati, per farne oggetto dello loro voglie. Dalla levità, perciò, allo strazio, con tensioni che non tardano a precipitare in quell'incubo in Wedekind mai apertamente enunciato o, al massimo, fatto solo sospettare in certi passaggi, in certe notazioni insinuate qua e là: a cominciare dalla terribile allegoria di una rappresentazione teatrale in cui tutte le fanciulle vengono mano mano coinvolte (si rilegga nella bella edizione italiana nuovamente ristampata nel '93 da Adelphi, con un dottissimo saggio conclusivo di Roberto Calasso). Il risultato è un film corposo, denso di eventi segreti che, molti, tendono a restare misteriosi, immerso in atmosfere in cui la sensualità e l'erotismo hanno i loro spazi, oscurati di continuo, però, da ombre che, quando ne svelano i retroscena, sfociano direttamente nell'orrore. Senza veri e propri tradimenti nei confronti di Wedekind, semmai rendendo solo palese quello che, sommessamente, nel suo testo era lasciato invece implicito. Domina questi climi, come direttrice dell'ambiguo istituto, una Jacqueline Bisset ormai segnata dagli anni, ma adeguatamente all'insegna, come ogni cosa lì attorno, della più fosca devastazione.

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