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Che brutta fine ha fatto l'opera lirica

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La definizione è forse dovuta ad un morbo narcisistico; forse ad un tic intellettualistico. È in vero una definizione che, presa alla lettera, segnerebbe a priori la condanna dell'opera stessa. C'adoperiamo qui a chiarificarne le ragioni. A norma di legge niente nasce, niente muore, tutto si trasforma: pànta rèi, secondo detta il frammento dell'aristocratico maître-à-penser efesino. Vale a dire che condizione dell'esistere è il non-essere, già che il divenire presuppone una mobilità continua: una trasformazione inesausta d'ogni sostanza e forma che inibisce la costituzione dell'unità: principio primo dell'essere. Se il tutto si rovescia nella propria negazione, perché mai l'opera in musica, trasformatasi dal Sei al Novecento, dovrebbe sopravvivere secondo fruste forme, anziché esser affatto altro da sé? Certo, un compositore contemporaneo potrebbe, còlto dall'uzzolo, scrivere un'opera «classica» (come la definisce Waters) à la manière de «Pelléas Mélisande» di Debussy o della «Zauberflöte» mozartiana, come il poeta stendere un sonetto sulla falsariga del Petrarca o di Shakespeare, ed il pittore echeggiare un Rembrandt o un Van Gogh; ma ci troveremmo a petto di meri esercizî rettorico-stilistici, antitetici alla sfera dell'arte, alienati dalla civiltà da cui sorgerebbero. L'opera è morta prima della metà del secolo trascorso, soppiantata da altre forme di teatro musicale, quali il musical, la prosa farcita di suoni, la musica prona alla sequenza cinematografica, etc... Piú specialmente l'opera è stata surrogata, nelle inclinazioni popolari, dallo spettacolo cinematografico e, nel confuso istinto delle sterminate masse acritiche, dallo spettacolo televisivo: sequel, fiction, reality show, ecco i melodrammi dei nostri dí superbi. Sotto il profilo consumistico, ciò che era l'opera lirica un tempo è ora la canzone (pop, rock, etc...): Rossi Vasco e Dalla Lucio sono eminenti come Rossini e Verdi nell'Ottocento, non contandosi oggi operisti ed opere di credito, bensí canzonisti e canzoni «da paura» (còlgasi il termine nell'accezione piú encomiastica e commossa). Le opere in musica dei dissolti anni - massime i capolavori - permangono e vibrano fulgenti nei teatri: non differentemente la «Ronda di notte» di Rembrandt o l'«Autoritratto con orecchio tagliato» di Van Gogh durano nei musei. Partecipano del nostro patrimonio spirituale e culturale, ma, perlappunto, partecipano d'una realtà museale ancorché nodale. A cancellare l'opera, nel gusto del pubblico e nella prassi compositiva, è stato altresí lo svolgimento della storia della musica, quando la scrittura sui primi del Novecento s'è ammatassata come una matassa di spaghetti scotti: tale da rendere in séguito il canto vocale un indigesto accidente: o pugna off limits tout-court. È finita l'opera lirica perché, l'arte tutta, assieme alla filosofia, ha patito l'agonía dello sconcio secolo ventesimo, il quale ha sancito la débâcle della Ragione, avvezza a coltivare lungo pregiande epoche sistemi di valori e dunque sistemi estetici donde i monumenti dell'arte traevano consapevolezza e contenuti di coscienza. Ad osservare oggi un nuovo parto del teatro musicale si trae la sensazione d'aver a fronte uno scheletro manovrato dai fili d'un grottesco puparo: un sentore di decrepitezza: d'organismo ballonzolante una putrescente giga sul diaccio tavolo dell'obitorio. Ma tra i contribuenti al naturale processo di sclerosi della lirica si conta pure l'aberrante invasione di campo della tecnologia, che ha vieppiú velocizzati i tempi dell'espressione linguistica ed artistica. Non è piú dato adombrare un affetto, un esitamento, un intrico di pathos nei tempi esatti dall'opera in musica. Al concetto è subentrato il brutale segno grafico che ne deturpa la dovizia e ne castra le implicazioni; il computer ha sbaragliato la manifestazione dispiegata de

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