Trentasei ore di razzismo a Los Angeles: un film travolgente
UN'OPERA prima americana addirittura travolgente. E splendida. La firma del resto, anche come regista, uno sceneggiatore della tempra di Paul Haggis, candidato all'Oscar per «Million Dollar Baby» e noto fino all'altr'anno per aver scritto varie serie televisive di successo, non ultima quella di «Walker Texas Ranger» trasmessa anche da noi. Trentasei ore a Los Angeles. Anche di giorno, perciò, ma sembra sempre notte perché tutto è buio e tutto è nero, non solo moralmente. Il tema è l'intolleranza, specie quella provocata da sentimenti razzisti. Molti personaggi afroamericani, perciò, a confronto con bianchi. C'è un poliziotto (interpretato da Matt Dillon) che sfoga sui neri, quasi con sadismo, certi suoi problemi familiari (un padre malato che non riesce a far curare dall'assistenza pubblica). C'è un procuratore distrettuale (Brenda Fraser) pronto a far carte false, anche a danno dei neri, pur di garantirsi una rielezione, mentre lo affligge una moglie (Sandra Bullock) intollerante oltre ogni limite nei confronti della gente di colore. C'è un regista televisivo afroamericano (Terrence Howard) che si lascia umiliare dai bianchi nonostante sua moglie (Thandie Nelson) se ne indigni. E c'è un altro poliziotto, anche lui di colore (Don Cheadle), che, pur costretto a confrontarsi a sua volta con problemi familiari, cerca di difendere dovunque i principi dell'integrazione. Per concludere con uno dei pochi poliziotti bianchi pronto a contrastare l'intolleranza e portato invece, per un equivoco, a uccidere proprio un nero. Varie storie. Alcune si intrecciano fra loro, favorendo qualche resipiscenza, altre, pur restando a margine, inserendosi molto abilmente in un contesto fatto svolgere sempre con abilità. Caratteri tutti ben delineati, situazioni in cui, con sapienza, si alternano le concitazioni e le pause, in cifre in cui il male, quasi fatalmente, sembra sempre prevalere sul bene (con una sola eccezione, data quasi come miracolosa). Mentre la regia, con segni forti, lontanissimi dagli impacci di un esordio, porta avanti i vari drammi in atmosfere sempre cupe in cui, anche quando la polemica non si affaccia in primo piano, sa insinuare, dal fondo, gli accenti di un razzismo strisciante che tutto avvolge. Con pessimismo totale. Lo evidenziano, oltre ad immagini sempre buie (di J. Michael Muro), delle musiche, dei canti e delle canzoni (di Mark Isham) che, volutamente in contrasto con quei fatti, li sottolineano con echi dolci, non dissimili però da una «lamentazione». Tutti gli interpreti, naturalmente, corrispondono ai climi predisposti dalla sceneggiatura e dalla regia. Ciascuno, anche nei momenti più negativi (Matt Dillon), pronto a svelare umanità dolenti.