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Il cinese non s'addice a Chopin. Meglio l'Orchestra della Banca svizzera

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non che icona dell'industriosità senza requie delle genti positive attendate in ogni plaga del mondo. Si parla del concerto che ha avuto luogo nel Parco della Musica di Roma, protagonista la UBS Verbier Festival Orchestra, capitanata dal maestro ceco Jirí Belohlavek - in sostituzione del celebre direttore americano James Levine, dolorante il tergo - ed adornata dalla presenza del summentovato pianista cinese, Yundi Li, lieve d'appena una ventina d'anni d'età, ma già pregiato assai dai critici di mezzo mondo: almeno da quelli riportati sul programma di sala; e vincitore del Premio «Chopin» di Varsavia, il piú ambito da coloro che intendono votarsi ai sentimenti paradossali e liquorosi del compositore polacco. Era Chopin, un tempo, brivido sensuale per ogni verginale giovinetta dalle imbragiate gote notturne; oggi, trillería cellulare infilata, a guisa proditoria, nel duplice forame uditorio. In vero, la compagine strumentale ha suonato l'altrieri a sera in modo incantevole: quale non suona forse nessuna delle itale nostre. Un suono dolce e esatto, una prontezza d'esecuzione tale che alla bacchetta sul podio era richiesto meno un'indicazione che un indizio. Colmi di vita e di respiro i violini; serrati ed irrefrenabili come una schiera d'Amazzoni le percussioni; seduttori i celli ed alchimisti i legni. Quanto agli ottoni: processionali. Tutt'insieme, questi ragazzi, c'hanno beati d'un'emozionante «Settima» di Beethoven: quasi fosse composta or sono mesi e contenente, inviolato, il pathos sublime di cui s'inonda e fiotta simile a scaturiggine - nell'irrefrenabile progredire allo spasmo coreutico che la irraggia e conchiude. Per parte sua il citato ceco percorreva vigile una lettura affatto «tradizionale»: benaccetta. Pari alla gioia provata all'esecuzione della «Settima» è stata la delusione per il cimento chopiniano di Yundi Li, in virtú del quale abbiamo per la prima volta capito quanto può esser banale lo stupendo «Concerto in mi minore per pianoforte ed orchestra op. 11». Basta commetterlo alle dieci dita d'un interprete come Lí. Che ha attaccato l'opera come se avesse in luogo delle convenute dieci dita dieci mazze. Uno Chopin evasivo, robotizzato: all'uopo eunuco. Al Lí gli difetta ancora l'esercizio delle nuances squisite; la sognería che s'effonde e vanisce nel cuore quale nuvola vagolante pel cielo. Non si possono sapere e cantare quelle cose sottili e fonde che soltanto l'accumularsi e reciproco permearsi delle esperiene del vivere e dell'amare lungo il fluire degli anni possono darti. Attenda Lí. Va da sé: nell'odierna società del Banale penetrare nell'universo lirico del grande polacco, tessuto di penombre, sottintesi e sinuosità, è cimento disperato. Chopin è una spremitura d'anima: il tempo presente è quell'anima spremuta e seccata in un canto muffato..... Era scritto sul programma di sala che Lí dà pochi concerti l'anno perché studia molto. Erra il giovine. Dovrebbe dar ancor meno concerti e studiare ancor di piú. E, in specie, studiare di piú Chopin ed eseguirlo meno coram populo. Successone di pubblico distinto.

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