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Fra Surrealismo e Metafisica la pittura spettrale di Delvaux

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La copertina del libro riproduce un quadro che sembra dipinto apposta per illustrarne il contenuto. Una via deserta, sotto un cielo indecifrabile, popolata di sole donne-manichino dal seno nudo e lo sguardo enigmatico, vecchie vetture tranviarie, lampade, lampioni ed una pensilina liberty. È «Le train Bleu» di Paul Delvaux del 1946. Torino ha aperto la stagione espositiva autunnale di Palazzo Bricherasio proprio con una mostra (fino al 15 gennaio) dedicata al percorso di questo artista, che ha attraversato, con le sue visioni, tutto il Novecento. A sette anni dalla retrospettiva che gli dedicò il fiorentino Palazzo Corsini, è possibile ammirare quaranta oli e venticinque disegni del maestro belga, oltre a due sezioni riservate all'immancabile raffronto col surrealismo metafisico di altri due giganti: De Chirico e Magritte. Impossibile perciò non abbandonarsi a questo sentiero onirico tra echi classici - alcuni edifici sullo sfondo, a mo' di quinta, ricordano la Città ideale di Luciano Laurana - interni borghesi trasfigurati, stazioni ferroviarie, treni, lampade e le immancabili figure femminili, vere vestali di questo mondo trasognato. Solitario e insofferente ad ogni gruppo e classificazione - troppo affrettato e superficiale il tentativo di rinchiuderlo nella torma dei surrealisti - rimase fedele nella sua lunga vita (1897-1994) ad una sola figura, vera depositaria ed ispiratrice del suo universo, la compagna Tam. Suoi sono i tratti diafani, fantasmi evocanti più che evocati, delle donne imprigionate tra maturità ed adolescenza, sogno e realtà, al contempo varco ed apparizione, in attesa sotto le pensiline, adagiate in pose di minore malizia ma maggior inquietudine delle bambole balthusiane. Affacciate, spesso, su prospetive capovolte, impossibili, che conducono alla vertigine, come nella magrittiana «Fenêtre» del 1936. Peccato, per la bella mostra, la scelta non proprio eccellente delle tele di De Chirico e Magritte, altre, forse meno improvvisate, avrebbero offerto un contrappunto più coinvolgente, e l'illuminazione, come spesso accade, che costringe il visitatore a continui riposizionamenti per evitare riflessi e appiattimenti prospettici. Interessante invece l'accostamento con altri due artisti, poco noti in Italia, come Constant Permeke e Leon Spilliaert, del quale è esposto il potente e suggestivo «Autoritratto». Ultima nota, nell'analogia con la narrativa di Hernández, un dato biografico del giovane Delvaux che, adolescente, si imbatté, in una raccolta di mirabilia, in una donna-automa dal cuore palpitante meccanicamente. L'inquietudine di quella commistione tra eros e meccanica, persona reale e suo replicante trova un approdo, casuale quanto intrigante, in uno dei racconti dello scrittore uruguaiano, «Le Ortensie». Le Ortensie sono bambole, il più possibile simili a esseri viventi che, pian piano, si insinuano in un ménage fino a divenire il vero oggetto di desiderio e le vere interlocutrici dell'uomo che con esse compone misteriosi "quadri viventi".

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