FIRENZE, MOSTRA SULL'UNIVERSO FEMMINILE
Ma lei è anche la ragazzetta cinese davanti a un campo di grano. E la giovane in primo piano, diresti una pretty woman per quel vestito accollato che pure la modella e le scopre una coscia. Le tre donne ritratte quasi sequenza cinematografica da Tracey Moffatt, australiana di origine aborigena, rimandano a tante altre - diverse per razza, latitudine, storia - e compendiano le intenzioni della mostra «Donna Donne» allestita a Palazzo Strozzi di Firenze fino all'8 gennaio del 2006. Una rassegna itinerante che si propone di fare il punto sull'universo femminile contemporaneo così come lo indaga l'arte. C'è una ricorrenza dietro la rassegna, che terminerà il suo viaggio a Bruxelles l'8 marzo prossimo. Dieci anni fa a Pechino ci fu la IV Conferenza Mondiale sulle Donne. Mise punti fermi, proprio nella capitale che le donne le mette parecchio all'angolo. Quei punti fermi, del resto, in molti casi sono rimasti pie intenzioni. E allora questa ricognizione tra fotografia, pittura, disegno, video, installazioni, vuol dire a che punto sta l'altra metà del cielo. Pechino 1995 sancì che la differenza uomo-donna, nel senso della specificità di ciascun sesso, era volano per abolire la disparità. Non avviene: specie in lavoro, carriera, politica, economia, industria, università, ricerca, l'uomo è parecchi passi avanti. Non avviene per la violenza contro le donne, uno dei dodici ambiti identificati dalla Conferenza di Pechino. Scrive Adelina von Fürstenberg, che ha curato la rassegna, nel catalogo edito da Giunti: «La pornografia occidentale o lo chador e il burka orientali, seppure fenomeni opposti, sono il segno di una condizione sociale che vede il femminile sottoposto allo strapotere maschile». Non è più tempo di femminismo, è vero. Il New York Times ha appena asserito che, tra silicone e tacchi a spillo, le donne sono tornate indietro di anni. Ma ci sono quelle che sanno essere ottime professioniste. E quelle che si scuotono, a oriente, la polvere della soggezione. Eccoli allora, tutti questi input nella rassegna di Palazzo Strozzi. Ghada Amer con «Le Mariés» ricama sulla tela una sorta di istantanea di una coppia di sposi egiziana nella più classica delle pose, così classica da potersi leggere con ironia. Paola di Bello nel video «Le dodici fatiche di Marna» insegue una mano che scrive una lettera, un rigo in inglese, un rigo in arabo, e dice dell'alternativa: o lasciare il lavoro o lasciare il marito. Donna oggetto all'ennesima potenza, per le dimensioni dell'opera, è quella di Wang Du, due enormi simolacri in minigonna, ricci e labbra a canotto. La donna e l'amore come violenza subita è nelle file di saponette di Marsiglia nelle quali Elisabetta Di Maggio ha intagliato, al posto della marca, parole-frustate: «sperma», «sangue», «sudore», «urina». E poi, la donna che guarda dentro di sé: attraverso il vetro di un treno (Nan Goldin); seduta su fagotti di stoffe coreane (Kimsooia); in una casa vuota (Zilla Leutenegger). Ad ogni opera s'accompagna una citazione. Come questa, di Lea Melandri: «Le donne conoscono il dolore e la rabbia per partorire un figlio, ma non quanto basta per partorire se stesse».