di PAOLO CALCAGNO «Nella valle perduta, vivevo con un popolo dimenticato ed ero felice.
Fino a 17 anni, Sabine ha vissuto nella giungla di Irian Jaya, nella Papua occidentale (Indonesia), assieme a 2 fratelli e ai genitori tedeschi, entrambi antropologi missionari. Sabine è nata in Nepal e all'età di 5 anni ha seguito la famiglia nella foresta indonesiana vivendo quotidianamente accanto ai Fayu, una tribù nota per praticare il cannibalismo. «Fino a 17 anni - racconta Sabine - non ero mai entrata in un negozio, non avevo mai guardato la televisione, né ero mai salita su un'automobile. Non ho mai giocato con le bambole, ma nuotavo nel fiume in cui c'erano i coccodrilli: il mio parco giochi era la natura e il mio tetto era il cielo». L'incredibile storia di questa sorta di Mogli dei nostri giorni è descritta nel libro «Figlia della giungla» (Corbaccio, 294 pagine, 16.60 euro), da pochi giorni nelle librerie. «La storia di una bambina cresciuta in un'altra era» è il sottotilo del libro di Sabine Kuegler, che l'autrice ha presentato a Milano, confessando l'intensa nostalgia per la vita primitiva che la consuma da quando è arrivata in Europa, fino a spingerla sull'orlo della depressione. Sabine, che cosa le manca di più di quel mondo che ha dovuto abbandonare? «La bellezza della natura, la lentezza dello scorrere del tempo, il clima e la cultura in cui sono cresciuta. Laggiù non ho mai indossato lana, né ho mai messo le scarpe. Soprattutto, rimpiango quella tranquillità che lì avevo e che qui non ho mai trovato». Davvero non è riuscita a cambiare pelle e ad adattarsi ai ritmi più agitati dell'Europa? «Ho provato ad assorbire questa cultura che mi è estranea, ma col passare degli anni ho ripensato sempre più spesso alla mia infanzia. Con il mio primo marito sono andata a vivere a Tokio, assieme ai miei 2 figli più grandi (oggi, hanno 13 e 12 anni; mentre gli altri due hanno 5 e 3 anni), ma anche lì sognavo i colori blu, verde e bianco delle vallate, dei fiumi e della giungla. Per sentirmi di nuovo a casa, ho incominciato a scrivere questo libro: ho raccontato la mia storia per ritrovare me stessa». Nella giungla non si è mai sentita in pericolo, alla mercé dei cannibali e degli animali selvatici? «No. Al contrario, mi sono sempre sentita al sicuro. I Fayu avevano simpatia per i bambini e ci proteggevano. Quanto agli animali, bastava stare attenti ai serpenti, ai cinghiali che attaccano l'uomo e agli struzzi, i più pericolosi. Gli indigeni mi accettavano, come se facessi parte della tribù: dividevano tutto con me, non mi hanno mai trattata come un'estranea». Che cosa le ha insegnato la vita della giungla? «Laggiù, ho imparato a gustare le cose semplici della vita. Lì, ho capito come è bello quando la vita gira intorno a un gruppo, anziché a una sola persona. I Faya mi hanno insegnato a rapportarmi con l'amicizia, con i sentimenti, il dolore, e a non portare rancore». Pensa di ritornare in quel mondo fuori dal tempo e di ritrovarlo come lo ha lasciato? «Devo ritornarci, anche se capisco benissimo che sarà diverso: allora, era il tempo della mia innocenza, della mia vacanza. Partirò a novembre, da sola, e resterò lì per due settimane: ho bisogno di trovare le risposte a certe domande, prima di fare il grande passo e stabilirmi per sempre in Asia. So che non posso portare i miei bambini nella giungla, ma forse potremmo stare a Papua, dove potrei lavorare con i cooperanti».