Il futuro inizierà dalla tolleranza
Che i fatti siano costruzioni culturali e che riflettano le nostre idee piuttosto che generarle è, secondo l'opinione dominante, un segno della modernità. Nella politica come nella scienza, nell'arte come nel giornalismo i fatti hanno perso da tempo la loro monolitica neutralità: non sono più eventi insindacabili e indiscutibili che si impongono a tutti con l'evidenza di un quadro iperrealista, li consideriamo piuttosto narrazioni o informazioni da smontare, interpretare e discutere. Siamo insomma convinti di essere moderni proprio perché non crediamo più ingenuamente nella separazione tra fatti e opinioni. Ma era ovvio che per Bruno Latour, l'autore di «Non siamo mai stati moderni» questo non potesse essere vero. Se non siamo mai stati moderni e siamo saltati direttamente dalla civiltà antica a quella postmoderna dobbiamo essere ancora, in qualche modo, schiavi dei fatti. Per dimostrarlo Latour scrisse nel 1996 un breve saggio: «Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches» nel quale si rifaceva direttamente al «Du culte des Dieux fétiches» di Charles de Brosses per spiegarci come e perché ancora oggi sia diffuso un culto feticistico dei fatti e come sia persino incivile supporre di poter eliminare definitivamente questo feticismo. Il saggio esce ora in italiano («Il culto moderno dei fatticci», Meltemi Roma, 119 pagine, 13 euro) per iniziativa e cura di un giovane filosofo leccese, Cosimo Pacciolla, che del postmodernismo sta valutando criticamente genesi e prospettive. La prosa di Latour è ispirata, complessa e a volte ridondante ma il ragionamento è chiaro: il modo in cui consideriamo i fatti ha la stessa radice psicologica del feticismo, scoperto da de Brosses e denunciato da Marx e Freud come uno degli errori cruciali della nostra civiltà. Il meccanismo con il quale i primitivi proiettavano sui loro totem speranze, ansie, esigenze e paure è identico a quello col quale si costruisce culturalmente la credibilità dei fatti. Il feticcio definisce non tanto l'oggetto in sé, quanto il valore particolare che il soggetto, proprio dimenticandone la natura di oggetto, tende ad attribuirgli, e il feticismo è quell'errore che induce a invertire, attraverso una sorta di autoinganno, l'origine dell'azione, spostandola dal soggetto creatore all'oggetto creato, determinando così l'alienazione del soggetto da sé. Proprio in questo senso - dice Latour - i fatti sono dei feticci e lo dimostra, a suo avviso, l'etimologia stessa delle due parole. Sbagliava de Brosses a far derivare fetiche (feticcio) dal latino fatum, destino; tutti i vocabolari sono concordi nel derivarlo dal portoghese feitiço che a sua volta viene da feito, participio passato di fare. "Feitiço" in portoghese vuol dire forma, figura ma anche fittizio, fabbricato, artificiale e poi anche affascinato, incantato. "Feticcio" e "fatto" hanno insomma la stessa radice il che giustifica, per Latour, l'asserzione che credere alla realtà dei fatti sia una forma di feticismo; anzi la forma originaria della proiezione feticistica. Abbiamo sbagliato - sostiene il sociologo francese - a pensare che il culto ingenuo dei fatti e della realtà, la convinzione dell'esistenza di una separazione chiara e netta tra fatti e credenze, tra narrazioni o favole da un lato e verità oggettive dall'altro, fosse una caratteristica distintiva della civiltà pre-moderna. Anche noi, che ci definiamo "moderni" proprio perchè ci riteniamo affrancati dal feticismo dei fatti e siamo consapevoli della loro natura di costrutti, siamo in realtà ancora vittime dello stesso errore: crediamo anche noi in modo feticistico e alienante a molti fatti che pure sappiamo essere costruzioni culturali. Crediamo ad essi perché li riteniamo costruiti in modo politicamente, scientificamente, artisticamente, giornalisticamente o religiosamente corretto. E poi perché ne abbiamo bisogno; esat